“Quando torno ti abbraccio così stretto da
toglierti il respiro :-*”. Continuo a rileggere il suo messaggio, non riesco a
smettere. Ormai lo faccio almeno cinque o sei volte al giorno.
Di solito comincio la mattina, appena alzato,
mentre aspetto che passi il caffè. Accendo il cellulare e lo guardo avviarsi,
prendere colore e poi presentare tutte le sue belle icone. Lo fisso sperando
che trilli per l’arrivo di qualche suo nuovo messaggio. Non succede mai,
trillare ogni tanto trilla, ma non è mai lei.
Allora lo prendo e scorro i messaggi vecchi e
rileggo ancora una volta quello: “Quando torno ti abbraccio così stretto da
toglierti il respiro :-*”. Lo leggo tutto insieme, poi una parola alla volta, cerco
di immaginarmelo detto da lei, di sentirlo pronunciato dalla sua voce. Poi mi
sento scemo e smetto, e prendo la caffettiera e verso il caffè nella tazzina.
Per quanta attenzione faccia, me ne cade sempre qualche goccia sul pianale del
lavello e allora devo prendere lo straccio, bagnarlo, strizzarlo e passarcelo
sopra, portando via le gocce di caffè.
Il suo messaggio “Quando torno ti abbraccio
così stretto da toglierti il respiro :-*” lo rileggo aspettando l’autobus, poi
un paio di volte al lavoro, poi tardi, dopo cena, prima di spegnere il cellulare e andare
a letto con un nodo in gola, perché ogni sera sono certo che se solo avessi
tenuto il telefono acceso ancora trenta secondi lo avrei sentito squillare.
Che poi nemmeno mi serve avere il cellulare,
quel messaggio, quelle nove parole, me le vedo stampate davanti e me le ripeto
nella mente di continuo, in maniera ossessiva, mentre programmo, durante le
riunioni. Ogni tanto se qualcuno mi vede particolarmente distratto mi chiede:
“Tutto bene? C’è qualcosa che non ti è chiaro?” E io allora rispondo: “Tutto
bene, tutto cristallino”.
In realtà non ho capito una sola parola di
quello che hanno detto, sto solo pensando a quante cose si dicono pensando che
siano vere, o magari solo perché non costa niente e si crede di far piacere a
chi le sente, senza considerare quanto male gli faranno in un secondo momento,
quando si saranno rivelate irrimediabilmente false.
Ogni tanto mi fisso a guardare fuori dalla
finestra dell’ufficio, osservo la gente che passa, un signore col cappello che
porta a passeggio il cane, una signora con la borsa della coop, una ragazza con
lo zainetto colorato e le all stars. Li invidio tutti, ogni volta vorrei essere
loro. Mi sembrano totalmente senza problemi, mi immagino che abbiano qualcuno
che li aspetta, qualcuno per cui cucinare, qualcuno che li passerà a prendere.
Vorrei le loro vite, vorrei barattarle all’istante con la mia. Vorrei essere
chiunque, tranne il destinatario di quel messaggio.
Sto male, seriamente. Tutto per un SMS, nove
parole, cinquantatre lettere e quella bacino al termine, a fare da timbro.
L’unica attività che mi da un po’ di sollievo è
fare la spesa. Passeggiare per i corridoi ordinati e luminosi del supermercato,
tra persone che sono tutte lì per il solito motivo, tutte impegnate nella
solita identica attività. Al supermercato siamo tutti uguali, al supermercato
pensiamo tutti alla stessa cosa, anche io.
Penso solo a cosa devo comprare, penso solo a
trovare le migliori occasioni, sfruttare le offerte promozionali. Mi fermo
davanti al banco dei formaggi e osservo l’etichetta rossa, indice di prodotto
in promozione, del pecorino di Pienza. Lo prendo, pregustandone il sapore,
cercando di annusarne l’aroma attraverso lo spesso strato di cellophane, poi lo
metto nel carrello. Faccio così con tutto. Ogni volta che fiuto un’occasione, o
semplicemente scorgo un articolo insolito o che non ho mai acquistato, mi si
accende qualcosa dentro, comincio a rimuginare sui suoi possibili usi, su come impiegarlo
al meglio, in maniera creativa. A volte mi fermo davanti a uno scaffale,
ipnotizzato da un tipo di salume o di cereale e non riesco a resistere fino a
casa, prendo il cellulare e mi collego in rete alla ricerca di ricette che lo
valorizzino, navigo sui forum spulciando i pareri degli utenti.
Fare la spesa è un’attività che ormai mi porta
via almeno un’ora, spesso un’ora e mezza.
E mi sta rovinando finanziariamente.
Spendo molti soldi e acquisto molte più cose di
quante ne riesca a consumare, ma non posso farne a meno, quei momenti al
supermercato sono ormai gli unici in cui non penso a quello stramaledetto
messaggio.
Il mio frigo trabocca di alimenti e emana
costantemente un odore di decomposizione. Devo continuamente buttare via
affettati, latticini e verdure marcite. La frutta, ammassata in un cesto sopra
il frigo va in putrefazione alimentando colonie di moscerini che svolazzano per
tutta la cucina. Non riesco a star dietro alle date di scadenza, tutto si
consuma e muore e io non riesco a farci nulla.
Anche oggi sono uscito, sono andato al lavoro,
e adesso la ricottina di bufala che speravo di gustare proprio stasera è ormai
piena di muffa. È diventata qualcos’altro, mentre io non c’ero, qualcosa di guasto,
che non va più bene.
“Quando torno ti abbraccio così stretto da
toglierti il respiro :-*”. Doveva tornare cinque giorni dopo. Ormai sono
passati tre mesi. Tornare è tornata a dire il vero, solo che non mi voleva più
abbracciare. Abbracciava un altro, uno che le piaceva più di me, che nel
frattempo ero evidentemente andato a male.
Da allora non faccio che rileggere quel
messaggio. Lo guardo e penso: esiste, aveva detto così, lo aveva detto a me,
non a quel coglione che abbraccia adesso. Cos’avrà lui più di me? Come ha fatto
a prendere il posto che lei aveva promesso a me?
Guardo la ricottina di bufala e poi il
cellulare appoggiato sul tavolo di cucina. Lo raggiungo, poso il formaggio e
prendo il telefono, scorro i messaggi, arrivo al suo, lo leggo di nuovo,
“Quando torno ti abbraccio così stretto da toglierti il respiro :-*”, premo
cancella messaggio e poi ok. Cancello tutti i nostri messaggi, poi cancello
anche il suo numero, poi poso il telefono, prendo un cucchiaio e mi siedo.
Apro il vasetto della ricotta di bufala,
affondo il cucchiaio nella muffa, lo sollevo, lo osservo controluce, in qualche
modo sembra un dolce a due strati. Lo metto in bocca, mastico. Ha un sapore
disgustoso, ma non mi interessa. Non mi interessa se è andata a male, se mi
farà male, le avevo promesso di mangiarla, la mangio, succeda quello che deve.
È giusto così.
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