lunedì 22 ottobre 2012

Guardando

Un po' di traverso, un po' di nascosto.
Certo, penso, con la voce che ha dev'essere molto sicuro di sé. Dice anche tutte quelle parole che a me non riesce mai di trovare al volo. Mi domando se sia solo una fortuna, una casualità, una dote o semplicemente una scuola molto accurata, specifica.
A me le parole al volo non vengono mai.
Però so guardare e guardando vedo tutti i vostri volti, quelli che celate dietro gli occhiali, la sciarpa annodata in quel modo, il sorriso del mattino e quello del pomeriggio. Perchè non ve ne accorgete ma dietro ogni maschera c'è un mondo che non vi appartiene e di quel mondo siete delle marionette; saltate e ballate ogni volta che la musica parte e dovete ballare perchè diversamente non sapete fare.
Vi vedo che parlate delle anime che vorreste vi abitassero e ne parlate così tanto che l'anima se ne va e neppure ve ne accorgete.
Vedo e guardo e ascolto.
Ascolto solo l'eco di questa stanza vuota che mai riesco a varcare.

sabato 6 ottobre 2012

È la signora delle scatolette di tonno, che mi ha colpito.


Questa notte non ho dormito.
Non si è trattato del pensiero di te, né della sensazione costante che qualcosa possa abbattersi sul mio letto, di schianto, come per un colpo di vento. Questa notte non ho dormito perché ho girato tutta la città in bicicletta, con un filo di lenza legato al portapacchi, e dietro tre scatole di latta vuote.

Gran cubetti di giornata, dicono le scatole. Che razza di nome, dico io, ma intanto pedalo e il rumore che produco supera le aspettative: sull’asfalto strida di lamiere, come un incidente piccolo, di nessuna importanza; sul selciato delle vie del centro è rumore di grandine, a chicchi grossi come mele; sui lastroni di pietra della piazza sollevo rumori antichi, da carrettiere.
Quando sei andata via pioveva forte. È singolare la selezione che nostro malgrado operiamo sui ricordi, anche quelli più prossimi. Oscuro il motivo per cui scegliamo alcune immagini e ne tagliamo altre. Così so che pioveva, ma non so più se avevamo litigato quella sera, o la sera prima, o un’altra ancora.
Ero sdraiato, gli occhi aperti a fissare il soffitto al buio, con il peso della tua mano vicino al mio sesso. Dormi? ti ho chiesto. Non mi hai risposto. La pioggia sbatteva sulle persiane e sulla tettoia di plastica. Ancora un attimo e la pioggia entrerà dalla finestra, ho pensato, ancora un po’ e ci sveglieremo nell’acqua, il letto che galleggia, le lenzuola umide di pioggia.
Ho desiderato a un tratto che l’acqua spalancasse le finestre e lavasse via tutto.
La mia bici procede così veloce in discesa che non riesco a starle dietro con i pedali: smetto di pedalare e tolgo piano le mani dal manubrio, prima una e poi l’altra.
Le scatole di latta mi seguono facendo un rumore assordante mentre si aprono le prime finestre e facce attonite, poi incredule, poi furibonde si sporgono dai davanzali e urlano parole nella mia direzione. In un attimo la notte silenziosa si riempie di grida, il rumore chiama altro rumore finché è chiaro per tutti che così non è più possibile dormire. Tanto meglio, penso. Così non sono il solo.
Nella frazione di tempo in cui mi compiaccio, la voce di una donna accompagna una scarica di grossi proiettili tondeggianti, che quando toccano terra non esplodono, ma prendono a rotolare lungo la discesa, accompagnano il movimento delle mie ruote. Prenditi anche queste, e queste, e queste, ripete la donna. Guardo meglio: sono scatolette di tonno.
Ho desiderato, poi, che smettesse di piovere. Non sapevo decidermi.
Mi sono alzato dal letto spostando piano la tua mano dal mio corpo. Ecco, ho pensato, adesso sono libero. Libero di fare cosa, non so. Ho aperto piano la porta del bagno e ho alzato meccanicamente la tavoletta come un bravo animale ammaestrato. Mentre guardavo il mio corpo sotto il neon impietoso dello specchio mi è venuto in mente Furby, il cane dei vicoli, il barboncino color champagne che esegue i suoi numeri alla perfezione e aspetta la ricompensa. Furby sa saltare, sa camminare in cerchio sulle due zampe posteriori, sa fare una capriola canina che lo rende più simile ad un ratto. La sua ricompensa arriva puntuale, sotto forma di biscotto. Furby compie tutti i movimenti che gli sono stati insegnati con un sorriso da sincronette.
All’improvviso ho sentito il bisogno di fare una doccia.
All’improvviso sento un dolore forte che si irradia dalla scapola sinistra e raggiunge il braccio, fino alla punta delle dita. La signora delle scatolette di tonno mi ha colpito. Sento un gemito: sono io. Provo a muovere il braccio sinistro tenendo il manubrio con la mano destra, provo a frenare, a puntare un piede a terra, ma è già troppo tardi quando compare davanti a me la sagoma di un cassonetto. È giallo, penso, che fortuna. Perché faccio la differenziata e le mie scatole di latta devo gettarle proprio nel cassonetto giallo. Poi penso a un cane giallo, al tonno pinne gialle.
Poi perdo i sensi.
          Mentre l’acqua della doccia scivolava sul mio corpo, fuori la pioggia continuava a battere sulle tegole del tetto, sul ferro scuro dell’inferriata, sui tavolini del bar. Se dio esiste, dev’essere un musicista, ho pensato. Il mio corpo ha conosciuto stagioni migliori. Quella sera mi sono lavato con forza, sfregando con la spugna e con le mani ogni parte di me, a togliere la pelle, a cercarne altra sotto. Dio continuava a suonare il suo improbabile xilofono terrestre, frustava il suolo, percuoteva i muri tesi delle case e intanto io lavavo le mie braccia, le gambe, le dita delle mani una ad una come si trattasse di un’impresa di vitale importanza.
Sono uscito dalla doccia e tu non c’eri.
Non eri più nel letto. Non eri più sotto le lenzuola, sotto il letto, in cucina, sul balcone.
Mi hai lasciato di te l’impronta leggera del tuo corpo sul materasso e la forma della tua nuca sul cuscino.
Mi hai lasciato un braccialetto, che poi saresti venuta a riprendere.
Mi hai lasciato.
Sono sdraiato. Dall’odore del disinfettante e dall’abbigliamento di chi ho attorno capisco di essere in ospedale. Eppure chiedo: dove sono? Un uomo vestito di bianco dice prontosoccorso. La mia testa produce curiose rime in orso, contro la mia volontà: corso, morso, accorso, angelorso.
Mi chiedono come mi chiamo e io rispondo. Mi chiedono che cosa è successo, che cosa mi ha ridotto in quello stato. Rispondo tonno. Preciso scatoletta di tonno e questa enorme fatica verbale induce l’infermiere ad armeggiare con la flebo per aumentare il ritmo delle gocce di sedativo, o qualunque cosa sia. Le vedo scendere veloci nel tubo trasparente e penso alla pioggia.

Questa notte non ho dormito.
Non si è trattato del pensiero di te.
È la signora delle scatolette di tonno, che mi ha colpito.





venerdì 5 ottobre 2012

Agata

La luce fioca dell’ abat-jour e le mie paure tremolanti. Poi tu che entri nella stanza, bella come l'inizio della notte.

E tutto l’amore che mi investe, insieme al tuo profumo.
Quanto è intenso il tuo profumo, quanto è assurdo questo amore. Non capisco più niente.
Ti afferro e ti bacio, cercando di soffocarti. Ti accarezzo come se dovessi ucciderti.
Ti spoglio, ti mordo, non ti do tregua.
E tu ti ribelli, quasi mi strappi i vestiti, mi graffi, mi tiri i capelli.
È una lotta, un duello, e io voglio vincere.
E anche tu.
E invece non vince nessuno, in questa guerra che ci combattiamo da anni, tra tragiche tregue e furiose battaglie.
Ma se scopare ha un significato deve essere questo, bruciare, pulirsi l'anima, sciogliere lo sporco che il mondo ci lascia fin negli anfratti più fondi.
E allora ti prendo, su un letto che non profuma di niente, ti travolgo, ti colpisco con la mia vita, sempre più forte.
E tu chiudi gli occhi e stringi le lenzuola, ti inarchi. Resisti e ti trattieni e poi gridi.
E non lo dici mai "ti amo", anche se cerco continuamente di estorcetela, questa confessione, provo a strappartela in ogni modo, giocando col tuo piacere, crudelmente.
Sono un inquisitore, un torturatore. Sono un sadico Torquemada.
Tu però non cedi mai.
Mi sfidi, ti rivolti, afferri il mio cuore e mi trascini, sempre più in alto. Saliamo, ancora più su, verso il sole, saliamo finché non è troppo, finché le ali non ci prendono fuoco.
Allora precipitiamo, giù verso il mondo, schiantandoci al suolo.
Poi agonizziamo, tra le carezze più dolci.
Poi è finita. Poi ti rivesti e poi te ne vai. E tutto ciò che la mia vita ti lascia è il segno rosso d'un morso, che tra poco andrà via.
Un segno rosso e nient’altro.
Riprendo i vestiti, li controllo, li indosso e torno ad essere la persona che tutti conoscono.
Di nuovo nei miei pantaloni, fissando la luce rossa dell’insegna che filtra dalla finestra, cerco un’altra volta di cancellarti per sempre.
Chiamo Anna e le dico che sono ancora in ufficio, sto facendo gli straordinari. Le dico di non arrabbiarsi e che questi son tutti soldi che entrano e ci paghiamo una bella vacanza.
Andremo in Sardegna, ad agosto. Farò finta di amarla.
Mi concentro sul fatto che tra poco sarò da lei, mangerò quello che mi ha lasciato da parte, giocherò un po’ con Carlo prima di metterlo a letto.
Andrà tutto bene.
L’unico pensiero che mi provoca angoscia è la consapevolezza che, una volta varcata la porta di casa, dovrò affrontare gli occhi di Agata, pieni di disappunto e tristezza.
Perché Agata è l’unica che lo sa e me lo rinfaccia. Non so come, forse proprio dalle mie braghe, ma in qualche modo lei lo ha capito, lei sola. Lei che è un’esperta, è del ramo.
Lei che è un cane lo sa.
Non sono fedele.

mercoledì 3 ottobre 2012

I volti indossati

Vedi, fece lui, la faccia che hai di fronte non è quella che normalmente indosso. Sono un'altra persona, ho un'altra vita e mi mimetizzo di continuo tra ricordi di me che non mi appartengono più. Lasciami perdere, è meglio.
 
Non era il momento migliore per restare fermi, pioveva e non avevano neppure di che ripararsi. Non era il momento migliore neppure per rispondere, certe affermazioni tranciano la fantasia. Non era il momento migliore per nulla.
La sola cosa veramente interessante di quell'incontro erano state le suggestioni e la follia di una sessualità incredibilmente incontenibile.
Non erano incontri qualunque, non c'erano preamboli o giri di parole, c'era andare al sodo e andarci in fretta.
E la sostanza era pesante, senza compromessi, per certi versi, deviante e fuori dalla soglia della moralità comune.
Non era lasciarsi andare era molto di più, era rinchiudersi nei dieci metri quadri della stanza e scordare dove quella stanza fosse e perchè esistesse, ammesso potesse esistere.
I volti, i loro volti, non erano previsti. Il corpo cominciava da sotto il mento e terminava sopra le ginocchia, neppure l'aria era aria, i respiri, le mani, le luci accese o spente, le persiane abbassate o spalancate, tutto era oltre, secondario al terreno e al mistico. Oltre.
La pioggia cadeva e cadeva l'ultima parola detta, che lei non esitò a voltarsi e andare via.
In fondo nessuno aveva un volto reale, nessuno dei due indossava ciò che era: ciascuno indossava la maschera dell'altro.
Lui la guardò di schiena rasentare i cornicioni del palazzo e scomparire all'angolo.
Si voltò appena senza muovere un passo, giusto per capire se dietro di lui esistesse ancora la strada o fosse sul ciglio di un baratro.