lunedì 27 maggio 2013

Vuoto

Cominci con le luci, fisse. Prosegui con i suoni, costanti. Infine entri in uno spazio nuovo che non si colloca in nessun modo, sta un po' dentro di te e molto fuori di te, ti appartiene e ti è straniero. La tua voce non la riesci a sentire più, ti brucia la gola e non hai gridato, non hai bevuto e neppure fumato, ma ti brucia costantemente. Eviti gli specchi che però ti seguono, ti si parano davanti ad ogni passo; una volta hanno la forma di un sorriso un'altra quello di una disperazione, altre volte sono solo vetri riflettenti ma ciò che vedi non ti piace. Allora ti soffermi a guardare un occhio, un sopracciglio, un brufolo sulla guancia che regolarmente farai sanguinare, tormentandolo.
In questo spazio la gente ti attraversa, ne cogli le sfumature e gli accenti, ma ti attraversa, niente di loro resta tranne quando una voce alle spalle, che non sai prevedere, ti sussurra l'elenco delle tue miserie, delle tue sconfitte; ti dice che non sai sognare, non sai vivere, non sai scrivere, non sai leggere, non sai pensare, non sai essere. E allora ti volti di scatto e non c'è mai nessuno, ma la voce insiste, ti tira per i capelli, ti cala i pantaloni, ti fa girare nudo, di una nudità che umilia la vista, che lascia solo il ricordo pendulo di qualcosa in disfacimento.
L'aria viene meno, il respiro è un gesto che devi importi.
Scompari, in questo vuoto che offende in questo buio alla mente. Ma sei lì e non riesci a evitare gli sguardi, scalci dentro a una bolla che respinge tutto, solo e isolato in mezzo al tutto.
Il vuoto ti accoglie, ti fa sentire unico in quella dimensione.
Apri la bocca e provi a gridare ma la gola non costruisce alcun suono e tutte quelle parole, beffarde, continuano a correre nella testa, schiave di quel luogo senza porte.

giovedì 9 maggio 2013

Nessuno vuole chi arriva secondo



A me non mi vuole nessuno.
Non è che la gente mi eviti, mi frequentano, a qualcuno piaccio pure, ma come passatempo, senza impegno, se ci sono bene, sennò fa lo stesso. È sempre stato così, ma sempre sempre. Proprio dall’inizio.
Tipo i miei genitori mica mi volevano. È un dato di fatto, me l’hanno detto, gliel’ho fatto confessare.
Son poi stati anche dei bravi genitori. Ottimi direi, però non mi volevano. E son cose che qualche segno dentro te lo lasciano, è inevitabile.
Anche solo per il fatto che quando la scopri, una cosa così, inevitabilmente, ti sei già beccato un paio di rifiuti come minimo. Tipo le tue compagne delle elementari. E poi quelle delle medie. E delle superiori.
Quelle che mi piacevano non mi hanno mai voluto davvero.
Poi capita che dopo una, due, tre volte che la gente ti illude e poi ti esclude, se scopri anche questa cosa che manco chi ti ha creato aveva intenzione di crearti, capita te lo chiedi il perché nessuno ti voglia. E scopri che una risposta a questa domanda non c’è.
Ce ne sono mille.
Laura, in terza elementare non mi voleva perché ero grasso, mamma e papà non mi volevano perché quanto a figli pensavano di essere a posto così, i miei amici non mi volevano mai in squadra perché ero scarso, a qualunque gioco. Monica non mi voleva perché le piaceva di più il mio amico Samuele. Era il mio migliore amico, Samuele.
Poi c’è stata Chiara, che è una storia un po’ diversa.
Chiara pensavo che mi volesse, a dire la verità, perché si passava così tanto tempo insieme, e mi prendeva la mano, e mi abbracciava e quasi si addormentava sulla panchina al tramonto, con la testa appoggiata sulla mia spalla.
Chiara poi quando una sera, lì sulla panchina, ho provato a baciarla ha fatto un balzo all’indietro e poi è scattata in piedi e si è puntata l’indice alla tempia e ha detto, Ma sei scemo?
L’ha detto come se quel gesto che avevo fatto fosse il più assurdo del mondo, l’ultimo che si sarebbe mai aspettata da me.
Le ho chiesto scusa e non ne abbiamo parlato mai più.
Quindi Chiara non lo so perché non mi voleva, anche se il fatto che adesso sia fidanzata con una biologa marina di Cesenatico qualche sospetto me lo fa venire.
Comunque il risultato anche quella volta fu lo stesso, e poi non c’entra Chiara adesso. Era sempre per dire che alla domanda perché non mi vogliono ci sono tante risposte diverse.
E tutte queste risposte, perché sei brutto, perché sei scarso, perché sei basso, perché c’hai il naso grosso, perché non sei capace, perché non sei produttivo, perché sei uno sfigato, baci da schifo, che ti salta in mente di infilarmi una mano sotto la maglietta al primo appuntamento, brutto maniaco del cazzo! Ecco, tutte queste risposte qua per un po’ non mi hanno portato a nient’altro che a urlare continuamente, Andate tutti affanculo, stronzi di merda! Che è una cosa che non funziona un granché per lenire le ferite dell’anima e non da nemmeno molta soddisfazione.
Allora finisce che uno le prende, tutte quelle risposte, le considera, le riconsidera, avvia, come ho fatto io, un lunghissimo processo di analisi e alla fine, dopo uno stremante sforzo di sintesi, le condensa nell’unica spiegazione possibile: sei tu che sei sbagliato.
Da lì in poi è tutta discesa. Gli altri che non ti vogliono non sono stronzi, non sono persone cattive, sono persone che hanno ragione. E se ci pensi bene nemmeno tu ti vuoi, solo che a te ti tocca. Ed è pure giusto così, perché ti sentiresti un verme ad infliggere a qualcun altro la sfiga di essere te.
Perciò ormai io vivo bene. Quando tipo i miei colleghi non mi invitano a una cena e poi il giorno dopo ne parlano alla macchinetta del caffè e quando arrivo cambiano discorso dopo un brevissimo silenzio imbarazzato, oppure mi dicono, Scusa c’eravamo dimenticati, non so come possa essere capitato, ma tranquillo recuperiamo alla prossima, vuoi mica un caffè, offro io, ops… scusa pensavo di avere ancora soldi nella chiavetta. Ecco, quando succedono queste cose qui che è evidente che la gente non mi ha voluto, io sorrido e dico, Non importa. Oppure dico, Pazienza, non starci a pensare, non fa niente.
Da quando sono arrivato a questa conclusione vivo molto meglio e li lascio anche sempre un po’ spiazzati, gli altri.
Solo che non è che funzioni sempre.
Tipo l’altra sera ero con questa ragazza, Irene, che è una mia collega che si scherza spesso, in ufficio, ed è un po’ che le volevo chiedere di uscire, e alla fine gliel’ho chiesto, e siamo usciti. Andava tutto benissimo e le avevo offerto l’aperitivo e poi le avevo offerto la cena e per tutto il tempo lei rideva e rideva e diceva che stava bene con me, che la facevo ridere e che le facevo dimenticare tutti i suoi pensieri cupi. E allora, siccome stavo bene anch’io, ho abbassato la guardia e ho cominciato a pensare che lei fosse diversa, che forse mi voleva davvero. E così le ho offerto anche una birra e poi un’altra e un’altra ancora, giusto per sicurezza, e poi mi sono offerto di accompagnarla a casa e l’ho accompagnata e poi sotto il portone di casa sua, che a quel punto, sarà stato l’alcol, pensavo davvero di amarla e che lei mi amasse, mi sono sporto in avanti per baciarla e lei ha detto, No, scusa, non posso.
Io allora le ho detto, Figurati, mi sarei meravigliato del contrario. Che è una cosa che a lei l’ha un po’ sorpresa e allora mi ha chiesto, Cosa? E io ho detto solo, Niente.
Sono tornato alla macchina e sono ripartito senza tristezza, solo con l’ansia che mi fermassero le guardie, perché davvero avevo bevuto troppo.
Poi quando sono arrivato a casa, che ero ancora piuttosto ubriaco, ho pensato che l’amore è una cosa che ti fa sbagliare, sempre. Se qualche volta non ti fa sbagliare è solo un caso.
Allora siccome mi piaceva molto questo pensiero e avevo paura di dimenticarmelo, ho preso un gessetto e l’ho riassunto sulla lavagna di cucina nella frase “L’amore è un pregiudizio”.
Poi la mattina dopo, prendendo il caffè l’ho riletta e ho pensato che era veramente una bella frase e che doveva essere davvero vera, perché nonostante l’avessi partorita da sbronzo me la ricordavo benissimo, non sarebbe stato necessario scriverla sulla lavagna.
Allora sono andato a vedere su treccani.it la definizione di pregiudizio e c’era scritto “Idea, concepita sulla base di convinzioni personali, senza una conoscenza diretta dei fatti, delle persone, delle cose, tale da condizionare fortemente la valutazione, e da indurre quindi in errore” e allora mi sono ancora più emozionato per la lucidità e la verità del mio pensiero e ho cominciato a credere, un po’ assurdamente, che quella frase lì, “l’amore è un pregiudizio” sarebbe piaciuta un sacco e avrebbe fatto capire a tutti che ero una persona intelligente, una con cui è interessante parlare, una persona che magari la vuoi vicino.
Così ho preso una pastiglia per il mal di testa, pensando che le cose possono sempre cambiare, poi mi sono fatto una doccia, pensando che a volte basta un piccolo particolare a cambiare l’immagine di una persona, e dopo sono corso al lavoro, pensando che adesso basta, non sarei stato più quello che nessuno lo vuole.
Lì, in ufficio, non ho fatto niente, me ne sono restato tranquillo a guardarmi video su youtube aspettando che fossero le undici. Poi, alle undici e cinque sono sceso in area relax e mi sono inserito nel capannello dei colleghi in pausa caffè e ho cercato in tutti i modi di pilotare la conversazione in modo da poterci infilare ad un certo punto la mia frase. E quando alla fine ce l’ho fatta l’ho detta. Ho preso fiato e ho detto, L’amore è un pregiudizio.
Allora subito si è creato un silenzio carico di ammirazione e io ho gonfiato un po’ il petto e mi sono predisposto a gustarmi il mio successo, che da quel momento in poi sarebbe stato travolgente.
Poi Trafossi ha detto, Bukowski.
Allora il silenzio si è allungato ancora di più e tutti guardavano verso di me con aria interrogativa. Non sapendo bene cosa fare ho guardato un po’ risentito, Guido Trafossi, contabile,  che è uno che mi sta pure antipatico, e ho detto seccamente, Come? No è mia.
Poi Trafossi ha detto, M mha magari mi sbaglio. Balbetta, quel coglione di Trafossi, e poi nessuno ha detto nient’altro che era l’ora di tornare al lavoro e quella diatriba li aveva già annoiati.
Se ne sono andati tutti, sfilandomi accanto, qualcuno, non saprei dire chi, mi ha anche dato una pacca di incoraggiamento su una spalla.
Sono rimasto solo, con un bicchierino di carta in mano, al centro dell’area relax.
Dopo ho guardato su google e niente, aveva ragione Trafossi.
Che poi in realtà significa che avevo ragione anch’io, solo che sono arrivato dopo Bukowski.
E nessuno vuole chi arriva secondo.
Non lo vorrei nemmeno io.
Sulla lavagna della cucina di casa mia adesso c’è scritto, rosso su nero, “L'amore è una forma di pregiudizio” Charles Henry Bukowski.
Volete venire a vedere?
No, certo che no.
Scusate.

domenica 5 maggio 2013

Senza virgola

Le anime si possono incontrare e quando accade non servono parole perché esse hanno un linguaggio che non necessità di vocaboli.
In genere i loro sguardi non hanno occhi e ciascuno anticipa dell'altro i gesti e le intenzioni.
Il torace si serra come in una morsa e quello è il segnale che nulla sarà come prima.
E anche da lontano il solo sguardo ricordato quella morsa accentua e la voce dell'altro s'insinua prepotente nei pensieri e ne limita il razionale.
Certe anime hanno il compito di uccidere e altre quelle di essere uccise.
E quelle che uccidono hanno volti conformati al loro ruolo sotto altri volti conformati ad altri scopi.
Se credi di evitare quelle anime tappandoti le orecchie le sole cose che otterrai saranno gole pulsanti pronte a esplodere della loro aria repressa.
Certe anime non si cercano ma ti vengono a trovare tutte e volte che pensi che essere ucciso sia la sola via di scampo.