lunedì 24 settembre 2012

Ellisse

Ellisse. Un ellisse perfetto, o qualcosa del genere. Comunque non un cerchio, e una ruota che non sia un cerchio ha difficoltà a girare, su questo persino io non ho dubbi.
Facendo perno con la mano sul sellino, mi giro a testa in giù a guardare meglio, che non sia uno scherzo, lo scherzo dell'ultimo bicchiere di vino, che non sia una strana illusione ottica dovuta alla luce gialla del lampione, al quale ho legato la bici. La mia cara, vecchia bici con le ruote tonde.
Niente da fare. Ellisse. Si chiamava così no? Il cerchio che non è un cerchio? L'orbita della terra intorno al sole?
Armeggio agitata con la chiave della catena per slegare il telaio e controllare ancora.
La luce gialla del lampione scivola sul manubrio, sulle leve del freno, sulle mie mani tremanti: al posto del campanello trovo un mulinello da canna da pesca.
C'è una lenza tesa che collega il manubrio della mia bici all'angolo della strada, ma è chiaro che prosegue oltre lo spigolo del palazzo. C'è qualcosa là dietro, collegato a me da questo filo di ragnatela teso come un mi cantino. Lo pizzico: l'aria vibra, MI.
Non so se riavvolgere la lenza o girare l'angolo.
La luce gialla del lampione incomincia a tremare e la lenza a dare strappi, come avesse abboccato un pesce gigantesco.
Ci siamo, penso, aiuto, penso. Aiuto, sussurro, dico ad alta voce.
Poi la lenza si allenta e scivola da dietro l'angolo un tonno. Un tonno in scatola.
Un altro tonno. In scatola. Quattro scatolette da 125 g, una da 300g. Pinne gialle, dice la scatola.
Sono vuote e legate tra loro da un filo di lenza.
Cerco e trovo con sollievo il cappio che mi permette di legarle alla sella come un sonaglio, un sonaglio da sposa, penso.
Salgo sulla mia bici, che procede a balzi su queste ruote nuove e fa un gran casino di latta che sbatte.
L'incubo è finito.



Polinomio ecclesiastico

- Suor Lara? -
- Sì? -
- Dove ha messo il coccio? -
- L'ho fasciato nel tovagliolo, ma... è solo una scheggia -
- Basterà, Sorella -
L'ebbrezza dell'omicidio stava dilagando senza spiegazioni, come una febbre che non si conosce e così si propaga più velocemente.
Era estate.
L'estate della Clarisse, l'avrebbero chiamata poi.

venerdì 21 settembre 2012

Ti Amo



Mi fece mettere una maglietta bianca, di cotone, anonima. Lo feci senza discutere, mi fidavo di lei e mi piaceva partecipare ai suoi processi creativi, essere in qualche modo compreso nella sua arte.
Quando l’ebbi indossata si allontanò, lasciandomi solo al centro dello studio. Attraversò il raggio di sole che entrava di sbieco dalla vetrata alla nostra sinistra e cominciò a frugare tra la confusione del grande tavolo di legno, tra pennelli, cornici e calchi di gesso. Trovò quello che stava cercando, un barattolo di vernice rossa e lo aprì. Ci infilò tutta la mano dentro, la destra, e poi la estrasse. Tornò verso di me tenendo il braccio lungo il fianco, le dita lasciavano cadere piccole gocce rosse dietro di lei, come una scia di sangue. Infilò i suoi occhi neri ben dentro i miei, in profondità. Aveva un’espressione triste e fatale, come una condanna. Mi chiese qualcosa che non mi aveva mai chiesto.
Dimmi che mi ami.
Non glielo avevo mai detto, sebbene ci frequentassimo ormai da qualche mese e sapessi in cuor mio di amarla e mi fossi anche deciso a pronunciarle, quelle due parole, di lì a poco. Forse l’avrei fatto proprio quella sera, eppure quella richiesta mi paralizzò.
Non credo potesse essere certa che lo avrei fatto, non era un ordine il suo, non aveva nulla di perentorio. La voce le tremava, mentre lo disse, e gli occhi sembravano sul punto di tracimare lacrime.
Nel silenzio polveroso dello studio l’unico rumore, regolare ed insistente, era quello delle gocce di vernice che le colavano dalle dita, schiantandosi sui teloni di nylon stesi sul pavimento.
Avevo paura, percepivo qualcosa di assoluto, come se tutto l’universo stesse convergendo in quel punto, su di noi. Non mi aveva semplicemente chiesto di esplicitare i miei sentimenti per lei, in qualche modo mi stava implorando di salvarla, da qualcosa da cui non poteva fuggire da sola, di prendermi cura di lei, della sua vita.
Mi domandai se ne sarei stato capace, se con quelle cinque lettere avrei potuto assumermi un impegno del genere, diventare il centro del nostro universo, sostenerlo.
Respirai profondamente, il cuore mi rimbombava nel petto, forte, insistente.
Le dissi ti amo.
Lei alzò la mano destra e ne appoggiò il palmo sopra il mio cuore, chiuse gli occhi e abbassò la testa. Mormorò anch’io, poi tolse la mano che lasciò un’impronta rossa sulla maglietta bianca.
Mise le sue mani sui miei fianchi e me la sfilò. La appoggiò ad asciugare su una sedia vicina, poi si tolse la sua e la gettò per terra, si sfilò i pantaloni della tuta e gli slip.
Mi accarezzò, con la mano rossa e anche con l’altra, mi sbottonò i jeans e facemmo l’amore, in una maniera che fu diversa da tutte le altre, da quelle che erano venute prima e da quelle che vennero dopo.
Ce l’ho ancora quella maglietta. Lei la firmò, quella sera. Volle che la tenessi io.
È qui, nelle mie mani, saltata fuori dall’ennesimo trasloco della mia vita. Probabilmente oggi varrebbe bei soldi, a volerla vendere; lei ha fatto parecchio successo, da allora.
Solo non è più molto bianca, la maglietta dico, tende un po’ al giallo e il segno rosso della sua mano è secco e leggermente scrostato.
Forse per il tempo passato. O forse perché il mio cuore quella sera, mentre le dicevo ti amo, batteva così forte che il colore non si stese uniformemente.
Non lo so, mi piacerebbe pensare che sia la seconda, ma sarebbe una scelta completamente arbitraria, che non ho diritto di fare.
Posso solo contemplare quest’opera d’arte e ricordare quel momento, unico nella mia vita, e quel ti amo pronunciato in una maniera diversa da ogni altro.
A pensarci bene, guardando gli scatoloni qui intorno e questa casa che lascio, forse l’unico autentico della mia vita.

lunedì 17 settembre 2012

Io, botte

Quando ero piccolo mi chiamavano La Botte. I miei compagni di classe - tutti maschi, come imponevano le regole di quei tempi - amavano esercitarsi in brevi e rapidi componimenti durante la ricreazione, che avevano puntualmente me come soggetto.

Prediligevano giochi di parole, come Diamo botte alla Botte e La Botte dorme su una botte.

Io incassavo sia le botte sia le prese in giro, sperando che il grasso sapesse proteggermi abbastanza da non lasciare segni visibili sulla pelle. In questa partita, non giocavano a mio favore né la mole né la professione di mio padre.

Lui è un famoso enologo. O meglio, lo è stato, prima che il bisogno di controllarmi si facesse così pressante da spingerlo a non uscire più di casa. I dottori erano stati chiari: per quanto potessi supplicare, contorcermi, lanciare oggetti contro il muro o minacciare svenimenti improvvisi, non doveva farmi mangiare fuori pasto. Mai.

Legarmi i polsi dietro la schiena, chiudermi a chiave nella mia stanza, farmi sorvegliare a vista ovunque andassi... non importava come: si doveva tenere a freno il mio bisogno di mangiare in continuazione.

A quei tempi il mio bisogno non aveva un nome. Ero solo una Botte molto golosa e in cerca di attenzioni. Nessun dottore poteva sapere che ero una Botte ipoglicemica.

Ora papà il vino lo fa e basta. Dormo ancora su una botte, tagliata a metà e lavorata fino a farla diventare un letto.

Dormire sul legno mi piace. A volte chiudo gli occhi e mi sembra ancora di sentire l'odore del mosto, vecchio di anni, che scende giù fra le travi del pavimento e arriva fino alla cantina.

L'odore di mio padre.

Che è anche mio.

domenica 16 settembre 2012

All'improvviso quel marciapiedi!

Uscii  di casa di corsa, ultimamente succedeva spesso. Sarà perché amavo trascorrere le serate in compagnia, sarà che la lettura del libro di fantascienza mi teneva sveglia tutta la notte, sarà perché mi sembrava di perdere tempo lasciandomi rapire dal sonno. Spesso le ragioni della sera che si ripercuotevano sulle mattinate assonnate che mi vedevano uscire di casa con la mente che rincorreva ancora la scia dei sogni. Quella mattina scelsi le scarpe meno comode, nascoste in fondo al portascarpe. Avevo sentito il bisogno di un abito importante e le scarpe rosse non potevano mancare. Incontrai nel percorso i miei vicini da mesi attenti alle mie uscite, chissà per quale motivo poi, chiudevo sempre il portone, non ero come quelli del terzo piano che lo appoggiavano solo e lasciavano che tutti i volantinanti riempissero le cassette di posta di pubblicità ingannevole. Mi guardarono però le scarpe e non seppi decifrare il loro messaggio.  Nel percorso accelerato per raggiungere la meta lavoro, dimenticai che il lungo marciapiede era da giorni occupato da ingombranti lavori. Il passo deciso incontrò la resistenza della cavità nascosta nella polvere dei lavori. La mia scarpa di vernice rossa dal tacco prorompente era bloccata, non c’era modo di recuperarla. La disperazione invase il mio affanno, mi svegliai all’improvviso dal sonno ancora latente. Mi ritrovai con un piede nudo sulla strada e lo sguardo perso che coglieva l’altra scarpa di colore verde. Come era possibile? Avevo indossato due scarpe di colore diverse e l’incidente col marciapiede mi restituiva la realtà delle mie scelte mattutine e per di più con una sola scarpa del colore sbagliato. Passanti mi scorgevano sorridendo, donne preoccupate guardavano i loro piedi, io assaporavo il piacere di un piede nudo sull’asfalto.. Maledii il mio sonno tardivo nella notte e pensai a una soluzione immediata. Eppure riscoprivo un piacere di libertà dal sapore lontano, autentico, pieno di spontaneità. Avrei proseguito il percorso a piedi, sarei entrata a lavoro così scalza, in attesa degli sguardi sorpresi, delle risatine cattive, dei commenti appassionati. Cosa c’era di meglio di una donna ben abbigliata e scalza? Avrei atteso poi il tempo necessario per divertirmi e poi  correre al mio negozio preferito per acquistare un nuovo paio di scarpe, perché no anche esse di colori diversi. Le avrei sfoggiate allora consapevole, con orgoglio, come solo noi donne piene di vanità sappiamo fare.


mercoledì 12 settembre 2012

Màrica

Poter scendere a patti non sempre si rivela un buon affare.
La questione era molto semplice: uscirne o restare.
La prima emozione è quella che conta, pensò intanto che scendeva le scale di casa sua. Da fuori tutti possiamo sembrare persone inecceppibili e differenti, basta mantenere a lungo quello sguardo curioso che contraddistingue le persone senza malizia; quelle che prima di ogni cosa è la propria morale, l'eccezionalità delle proprie azioni, il riverente saluto sul sagrato dopo la messa.
La malizia è lì che ci segue dappertutto, s'insinua nei nostri pensieri alla fermata dell'autobus indugiando lo sguardo sul gruppo di studenti in attesa scanzonata; la malizia é credersi capaci ancora di incuriosire. Sessualmente, chiunque.
Non bastava la scusa delle lezioni, le ripetizioni. Non bastava il potere naturale di una posizione dominante. No. Serviva oltre, serviva sapersi differenti e al limite di se stessi.
Màrica lo aveva capito eccome, nonostante i suoi diccianove anni. Aveva perfettamente capito che la malizia non è un abito di una sera ma una pelle che si rinnova a ogni età. Amava vederlo così, indebolito dai suoi stessi piaceri mai troppo controllati e controllabili. Non era lei la vittima, era la carnefice in un gioco dove si massacravano le certezze e sapienze di una vita, la vita di un lui ancora troppo impegnato a perdersi in quei sensi riaffiorati alla mente da non comprenderne l'aspetto letale.
Il patto erano i silenzi che avrebbe dovuto gestire per conservare immacolata la figura e la sostanza. Il patto era fingere che Màrica non avesse due anni in meno di sua figlia. Il patto era credere ancora di essere vivo in cambio di una morte entusiastica.
Uscirne o restare. Uscirne o restare.
Come chiedere al vento di essere nuvola e soffiarsi via da solo.

martedì 11 settembre 2012

Maiale

Solo buio intorno. La corda che sega i polsi. Le dita delle mani che formicolano. Dove cacchio sono? Ecco che riaffiora alla mia mente, come un eco, la parola maiale. Si, maiale! Mi aveva chiesto se volevo fare il maiale con lei e io le sono corso dietro senza fare domande. Saturo delle sue curve, del suo profumo, il mio corpo aveva risposto al richiamo. Ora eccomi qui appeso a un trave, braccia e gambe legate.

Il gioco era intrigante. Mi stavo gustando il più bel pompino della mia vita. Ero immobilizzato e non potevo fare nient’altro che godere. Per un attimo ho pensato che fosse una pazza quando l’ho vista raccogliere il mio sperma in una provetta. Ma chi sono io per giudicare le perversioni della gente?

Si è alzata in piedi, ha camminato verso un mobile. Il mio sguardo era fisso sui suoi glutei, esplodevo dentro dal desiderio di sculacciarla. Ha aperto un cassetto ed ha tirato fuori un rasoio. Stavo per mandarla a fanculo, ma appena ho aperto la bocca mi sono ritrovato uno straccio tra i denti. Il gusto del sangue mi ha colpito come uno schiaffo. Ha ispezionato ogni parte del mio corpo con la lama, eliminando ogni singolo pelo. Mi sentivo nudo, stavo tremando scosso dai brividi. Ha raccolto tutto in una busta sigillata. In assoluto silenzio, è uscita, ha spento la luce e ha chiuso la porta.

Non so da quanto tempo sono qui. Mi sono pisciato sulle gambe e fa un caldo infernale in questa stanza. Sento le gocce di sudore che mi scendono lungo la schiena. L’odore d’urina inizia a nausearmi. È uno scherzo del cazzo! Appena mi slega la riempio di botte sta’ stronza.

Vedo un filo di luce che passa sotto alla porta. Sento il rumore dei tacchi a spillo. Non capisco se ho più paura o se sono più eccitato. La porta si apre, la luce da fuori illumina la lama di un coltello. Si avvicina e mi sussurra all’orecchio: “Del maiale non si butta via niente.”

Non so perché, ma il mio primo pensiero è che da oggi diventerò vegetariano.

Polinomio fantastico

L’ebbrezza dell’estate giunse da lontano al convento delle clarisse segnalato sul percorso di montagna. Nell’atrio adibito a ristorante gli ospiti si divertivano rispettando un contenuto riserbo. All’improvviso come una scheggia impazzita si diffuse  una fervente eccitazione. Qualcuno aveva rovesciato una bottiglia, il nettare d’uva, fresco e rubino aveva macchiato, quasi fosse goccia di sangue, il tovagliolo immacolato poggiato sulla tavola regale.  Un coccio partì lontano.  Si sentì nell’aria un leggero movimento, nessuno immaginava che  avrebbe avuto inizio l’inferno.

Lo Specchio



In piedi accanto al letto, mi guardo riflesso nella parete a specchio. Tendo i muscoli addominali, verifico la sporgenza dei pettorali. Poi ruoto facendo perno sulla punta dei piedi e mi osservo di profilo, valutando l’assenza di rotondità della pancia. Fletto le gambe e mi piego leggermente in avanti, lasciando emergere il disegno dei dorsali, gonfiando la massa dei quadricipiti femorali. Poi mi rimetto dritto, nella posizione di partenza, mi sfilo i boxer e li lascio scivolare fino a terra, allontanandoli con un rapido movimento del piede. Completamente nudo mi passo le dita sulla testa calva e le incrocio dietro la nuca. I miei tatuaggi risplendono, il mio corpo è liscio, perfetto. Sono indubitabilmente bello.
Mi fletto in avanti afferrando saldamente le caviglie, le mie gambe sono tese, la colonna vertebrale perfettamente arcuata.
Non posso vedere l’immagine riflessa, ma so con certezza che richiama un’idea di impeccabile perfezione fisica, l’estasi della proporzione, un ideale greco. Trattengo il respiro, chiudo gli occhi e mi immergo profondamente nel tepore mia autostima.
Suona il telefono e mi rialzo, uscendo dal bozzolo di compiacimento che mi proteggeva. Immagino chi possa esserci dall’altra parte dell’apparecchio e lo lascio squillare una, due, tre, quattro, cinque volte. Squilli lunghi nel silenzio della stanza. Poi scatta la segreteria.
-Lothar!
Il mio nome, pronunciato dalla sua voce infuocata, risplende di precisione come la lama di un bisturi. Allargo le gambe e contraggo i muscoli.
-Lo so che ci sei, brutta testa di cazzo!
Con una mano mi accarezzo l’addome, ammirando lo spettacolo meraviglioso di un erezione che si schiude. Posso percepire distintamente lo scorrere del sangue richiamato a gran voce là dove si concentra la mia vita.
-Ho qui davanti la relazione che mi hai consegnato. Che cazzo significa? Sei rincoglionito?
Quando si arrabbia così le si gonfiano le vene del collo. È la rabbia disperata di chi ha avuto la bellezza e l’ha persa. Vorrebbe che la scopassi ancora, ne ha bisogno per sentirsi viva.
-Merda, sono le dieci pagine più inutili che mente umana abbia mai partorito. Ti direi di aggiustarla ma è impossibile, ho affidato a Stein l’incarico di prepararne una decente.
Sfiorandomi ripenso alla morbidezza setosa dell’interno delle sue cosce, al gusto vellutato della sua pelle.
-Abbiamo dovuto rimandare la presentazione, per colpa tua, ignobile mentecatto.
Ripenso agli scatti della sua schiena, al grido delle sue viscere, al suo sudore caldo.
-Questa volta è troppo, Lothar, lo capisci?
C’è solo un potere al mondo, e non è quello gerarchico che crede di avere lei.
-Senti, se un cervello da qualche parte ce l’hai, sbrigati a venire in ufficio.
Ripenso alla forza meccanica delle mie mani strette intorno al suo bacino.
-Ti do la possibilità, l’ultima, di convincermi a non licenziarti.
C’è solo il potere d’acciaio della bellezza, tutto il resto è futile.
-TI dico già che non sarà facile.
Ci sono solo io, riflesso in uno specchio, fiero, perfetto.
La comunicazione si interrompe. Continuando a guardarmi negli occhi abbandono il mio sesso e trattengo la voglia che avrei di baciare la mia immagine.
Non ho fretta, sorrido, mi dico “ti amo” e vado in bagno a lavarmi.

sabato 8 settembre 2012

Polinomi Fantastici - La sorte

Sarà stata l’ebbrezza o la felicità opprimente della festa.
Sarà stata l’estate calda e stanca che non vedevo l’ora che finisse.
Sarà stata la mia disperazione,  un febbrile senso di vuoto, da astinenza profonda, come quella che potrebbe provare Rocco Siffredi intrappolato in un convento di clarisse. Non lo so.
Fatto sta che l’ho fatto, così, senza riflettere. E' stato un attimo, una scheggia di follia.
Quando ho visto che stava andando via mi sono alzato, mi sono pulito la bocca col tovagliolo, ho preso la bottiglia di birra ormai quasi vuota e l’ho raggiunta.
Eravamo solo io e lei, sotto le stelle, lungo la stradina che scendeva alla spiaggia.
Allora ho frantumato la bottiglia contro l’angolo di un muretto e, puntandole contro il coccio, le ho detto: “Dimmi come ti chiami. Dimmi il nome della donna che sarà mia!”
Mi ha guardato negli occhi.
Era sorpresa. Non spaventata, sorpresa.
Ha risposto: “commissario Samanta Cattoi”

Vermentino di calasetta, ore 14.

Ecco, lo sapevo.  L'attimo perfetto che credevo possibile, non c'è.
Non c'è nulla, neppure l'attimo immaginato, quello sperato o quello sognato.
Ci sono sono solo attimi, uno diverso dall'altro, liberi e in catene nella stessa misura.
Quella che ci fa credere di saper essere la soluzione quasi mai lo è. Ciò che manca è ciò che continuiamo a cercare. E cercare è la scusa per non dover mai dire " Ho capito."
Per questo continuiamo a sbagliare sapendo di farlo e facendolo sempre meglio.

giovedì 6 settembre 2012

Polinomio...

Quando ero una donna, a volte, sentire il rumore di un bicchiere che si scheggiava cadendo, mi provocava come un brivido, un incoscio bisogno di ordine in frantumi. Adesso, qui, lo spessore dei muri e il silenzio delle stanze, mi ricorda che dentro a un bisogno di ordine c'è una fuga lasciata in sospeso.

Polinomio brevissimamente alcoolico #1

È estate. Rapiti dall'ebbrezza, lanciamo un bicchiere sul tavolo dove un gruppo di clarisse sta consumando la sua cena. Una di loro raccoglie un coccio con il tovagliolo, mentre le altre controllano che nessuna scheggia si sia posata sul loro cibo.

Polinomio alcoolico #1 - Estate ischitana

Il tovagliolo copre la mia mano. Una sceggia di legno conficcata nell'indice mi impedisce di spostare il coccio sul fuoco più debole... non devo far bruciare questo coniglio all'ischitana!
Qui al conveno delle Clarisse non mi è permesso sbagliare. Ma la mano mi fa male.
L'estate è dura su quest'isola, e Dio non mi consola.
Bevo... questo vino che dovrebbe essere consacrato a Lui. Bevo... e l'ebbrezza mi stordisce, la mano pulsa e mi ricorda di quando ero ancora una donna.

Polinomio Fantastico # 1 - Claudia

Era l’estate del 1986, non ricordo se ero ubriaco, anzi ho un ricordo sfumato di quella sera. Stavo passeggiando con una bottiglia di birra in mano. Ogni sorso mi riempivo la bocca e lasciavo scendere il liquido dolce fino in fondo alla gola. Nessun programma, nessuna meta. Avevo solo iniziato a camminare, al mio fianco il mare. Ero in cerca di una scheggia di luce che illuminasse di riflesso la mia giornata. I piedi mi avevano portato sotto al convento delle clarisse. Mi ero ripromesso di non passarci più. Non so se fosse giusto, ma sicuramente non riuscivo a resistere. Claudia era alla finestra, ferma. Appoggiando i miei occhi su di lei venni investito da una sensazione di ebbrezza, come un'onda che saliva lungo il corpo. Aspettavo solo un cenno, che lanciasse dalla finestra un messaggio su tovagliolo. Ma non accadde nulla. Io la guardavo e lei rimaneva immobile in silenzio come un dipinto. La rabbia mi prese all’improvviso e lanciai la bottiglia contro il muro lasciando uscire un urlo liberatorio. Dei miei sentimenti non era rimasto che un coccio insignificante. (dedicato a Giuseppe)

mercoledì 5 settembre 2012

Le ragioni alcooliche

Una lingua si perfeziona usandola. E mica solo una lingua. Penso ai gesti, alle movenze, alle cadenze. Penso anche ai mondi che intorno si colorano quando meno te lo aspetti. Penso che a restare immobili si facciano gli stessi danni di un novantenne in autostrada ai quaranta all'ora in prima marcia, sulla corsia di sorpasso.
Le ragioni alcooliche sono un pretesto per lasciar fare l'istinto e ammorbidire le intenzioni.
Le ragioni alcooliche sono una scusa per dire " Ok, ci siamo!"
L'officina alcoolica è tutto questo, tra il sobrio e il finto alticcio, provare a credere che ci possano essere ancora spazi dove misurare un gesto e una parola.
L'officina è fatta di strumenti, spazi angusti e aria malsana. Ma anche silenzio quando serve e rumore quanto basta. Ci si va quando serve e se serve servirsi di qualcosa di trasformabile.
Dunque s'accendano le fornaci!
Ciascuno porti martelletti e consonanti cònsone!