Questa notte non ho dormito.
Non si è trattato del pensiero di te, né della sensazione costante che qualcosa possa abbattersi sul mio letto, di schianto, come per un colpo di vento. Questa notte non ho dormito perché ho girato tutta la città in bicicletta, con un filo di lenza legato al portapacchi, e dietro tre scatole di latta vuote.
Gran cubetti di giornata, dicono le scatole. Che razza di nome, dico io, ma intanto pedalo e il rumore che produco supera le aspettative: sull’asfalto strida di lamiere, come un incidente piccolo, di nessuna importanza; sul selciato delle vie del centro è rumore di grandine, a chicchi grossi come mele; sui lastroni di pietra della piazza sollevo rumori antichi, da carrettiere.
Quando sei andata via pioveva forte. È singolare la selezione che nostro malgrado operiamo sui ricordi, anche quelli più prossimi. Oscuro il motivo per cui scegliamo alcune immagini e ne tagliamo altre. Così so che pioveva, ma non so più se avevamo litigato quella sera, o la sera prima, o un’altra ancora.
Ero sdraiato, gli occhi aperti a fissare il soffitto al buio, con il peso della tua mano vicino al mio sesso. Dormi? ti ho chiesto. Non mi hai risposto. La pioggia sbatteva sulle persiane e sulla tettoia di plastica. Ancora un attimo e la pioggia entrerà dalla finestra, ho pensato, ancora un po’ e ci sveglieremo nell’acqua, il letto che galleggia, le lenzuola umide di pioggia.
Ho desiderato a un tratto che l’acqua spalancasse le finestre e lavasse via tutto.
La mia bici procede così veloce in discesa che non riesco a starle dietro con i pedali: smetto di pedalare e tolgo piano le mani dal manubrio, prima una e poi l’altra.
Le scatole di latta mi seguono facendo un rumore assordante mentre si aprono le prime finestre e facce attonite, poi incredule, poi furibonde si sporgono dai davanzali e urlano parole nella mia direzione. In un attimo la notte silenziosa si riempie di grida, il rumore chiama altro rumore finché è chiaro per tutti che così non è più possibile dormire. Tanto meglio, penso. Così non sono il solo.
Nella frazione di tempo in cui mi compiaccio, la voce di una donna accompagna una scarica di grossi proiettili tondeggianti, che quando toccano terra non esplodono, ma prendono a rotolare lungo la discesa, accompagnano il movimento delle mie ruote. Prenditi anche queste, e queste, e queste, ripete la donna. Guardo meglio: sono scatolette di tonno.
Ho desiderato, poi, che smettesse di piovere. Non sapevo decidermi.
Mi sono alzato dal letto spostando piano la tua mano dal mio corpo. Ecco, ho pensato, adesso sono libero. Libero di fare cosa, non so. Ho aperto piano la porta del bagno e ho alzato meccanicamente la tavoletta come un bravo animale ammaestrato. Mentre guardavo il mio corpo sotto il neon impietoso dello specchio mi è venuto in mente Furby, il cane dei vicoli, il barboncino color champagne che esegue i suoi numeri alla perfezione e aspetta la ricompensa. Furby sa saltare, sa camminare in cerchio sulle due zampe posteriori, sa fare una capriola canina che lo rende più simile ad un ratto. La sua ricompensa arriva puntuale, sotto forma di biscotto. Furby compie tutti i movimenti che gli sono stati insegnati con un sorriso da sincronette.
All’improvviso ho sentito il bisogno di fare una doccia.
All’improvviso sento un dolore forte che si irradia dalla scapola sinistra e raggiunge il braccio, fino alla punta delle dita. La signora delle scatolette di tonno mi ha colpito. Sento un gemito: sono io. Provo a muovere il braccio sinistro tenendo il manubrio con la mano destra, provo a frenare, a puntare un piede a terra, ma è già troppo tardi quando compare davanti a me la sagoma di un cassonetto. È giallo, penso, che fortuna. Perché faccio la differenziata e le mie scatole di latta devo gettarle proprio nel cassonetto giallo. Poi penso a un cane giallo, al tonno pinne gialle.
Poi perdo i sensi.
Mentre l’acqua della doccia scivolava sul mio corpo, fuori la pioggia continuava a battere sulle tegole del tetto, sul ferro scuro dell’inferriata, sui tavolini del bar. Se dio esiste, dev’essere un musicista, ho pensato. Il mio corpo ha conosciuto stagioni migliori. Quella sera mi sono lavato con forza, sfregando con la spugna e con le mani ogni parte di me, a togliere la pelle, a cercarne altra sotto. Dio continuava a suonare il suo improbabile xilofono terrestre, frustava il suolo, percuoteva i muri tesi delle case e intanto io lavavo le mie braccia, le gambe, le dita delle mani una ad una come si trattasse di un’impresa di vitale importanza.
Sono uscito dalla doccia e tu non c’eri.
Non eri più nel letto. Non eri più sotto le lenzuola, sotto il letto, in cucina, sul balcone.
Mi hai lasciato di te l’impronta leggera del tuo corpo sul materasso e la forma della tua nuca sul cuscino.
Mi hai lasciato un braccialetto, che poi saresti venuta a riprendere.
Mi hai lasciato.
Sono sdraiato. Dall’odore del disinfettante e dall’abbigliamento di chi ho attorno capisco di essere in ospedale. Eppure chiedo: dove sono? Un uomo vestito di bianco dice prontosoccorso. La mia testa produce curiose rime in orso, contro la mia volontà: corso, morso, accorso, angelorso.
Mi chiedono come mi chiamo e io rispondo. Mi chiedono che cosa è successo, che cosa mi ha ridotto in quello stato. Rispondo tonno. Preciso scatoletta di tonno e questa enorme fatica verbale induce l’infermiere ad armeggiare con la flebo per aumentare il ritmo delle gocce di sedativo, o qualunque cosa sia. Le vedo scendere veloci nel tubo trasparente e penso alla pioggia.
Questa notte non ho dormito.
Non si è trattato del pensiero di te.
È la signora delle scatolette di tonno, che mi ha colpito.