venerdì 28 dicembre 2012

Avverti

Avverti come una presenza.
E' come se un tuo doppio ti osservasse da un po' di tempo.
Qualcosa che staccatosi da te ti anticipasse i passi camminando all'indietro e ridendoti in faccia, impedendoti di seguire una linea retta del tuo passo, costringendoti a un continuo tentativo di smarcamento, una volta a destra, a sinistra, ritornando sui tuoi passi.
Avverti che nelle tue braccia la forza è venuta meno.
Sei debole ma al tempo stesso forte della convinzione che quel doppio perfido, prima o dopo lo sorpasserai, e con decisione lo riporterai al suo posto, nel tuo profilo, dentro alle stesse pulsazioni.
Avverti tutti i sensi.
Sono in guardia, l'amore e le sue provocazioni, la felicità e i suoi eccessi, la tristezza e il suo lato oscuro, il buio e la sua luce, il silenzio e la sua voce che non smette di cantare.
Avverti che è ora di fare quel passo nuovo.
Un passo che ancora non conosci e la cui conoscenza, la sua novità, ha quel sapore di terrore che non fa tornare indietro, che fa muovere le gambe veloci e nervose.
Avverti, avverti che il tempo è solo uno.
Il tuo.
Il solo.
Quello che un attimo dopo sarà già un altro tempo ancora.

sabato 22 dicembre 2012

L'inaspettato sperato amore

Ciò che fa è semplice, s'intrufola. Lentamente.
Fa un largo giro su di sé, inizialmente incuriosito, appena disposto all'ascolto, si mette lì in un angolo e ascolta e osserva e a volte sorride. Non lo vedi, credi di non conoscerlo eppure può metterti a disagio.
Perchè il disagio, quello vero che ti fa sentire di troppo e troppo predisposto agli sguardi poco compiaciuti degli altri, questo disagio, quando c'è, ti fa perdere il fiato per parlare e il passo giusto per passeggiare. E tutto diventa frenetico come se da un momento all'altro dovesse finire il mondo. Che poi il mondo perchè dovrebbe finire? E noi?
Quando sei lì che osservi e ti accorgi che non c'è il disagio e capisci che le parole che stai dicendo sono parole ascoltate e comprese, allora in quel momento lui, s'intrufola e ti pizzica il cervello dove non pensavi potesse pizzicare.
Perchè un amore quando arriva, non necessita di squilli. Un amore ha capelli solo per te e vento solo per te e dettagli solo per te. E lui lo sa e s'intrufola nella tua vita, ti sposta le mani che volevi in tasca, ti accende quei colori che credevi stinti e ti dice, e lo fa sottovoce, che le tue abitudini non sono la tua vita e la tua vita sono abitudini che cambiano.
Ciò che fa è semplice, s'intrufola, s'intrufola e ti pizzica. Ogni giorno un po' di più.
E ti fa scordare che quell'ora non è un ora qualunque e quelle parole non sono state dette solo per dirle. E la curiosità è molto di più che un bisogno d'intelligenza ma una necessità di conoscenza.
Sta lì, ti osserva, ti lascia fare, ti stuzzica e poi ti sussurra all'orecchio quei suoni che sembrano parole quelle frasi che sono sempre state lì e che mai hai lasciato vivere davvero.
Ciò che fa è semplice. Ti fa scegliere.

venerdì 21 dicembre 2012

Attese


La macchina mi ha sputato in mano il biglietto. Ho guardato i segni oracolari incisi sulla carta. Il mio destino scritto nero su bianco. Penso solo al mio futuro più prossimo. Quanta fila dovrò fare. Andare alle poste è sempre un’avventura. Sono uscito dall’ufficio un’ora prima. Voglio stare tranquillo e pagare il mio bollettino. Il cartellone luminoso sembra volermi scoraggiare. “A031 sportello 6” la scritta porta con sé una previsione nefasta. Una lunga attesa indefinita. Le cifre che stringo sfiduciato mi collocano alla posizione “A121”.

Ma non si è mai chiesto nessuno perché ci infliggiamo questa tortura? Perché metterci in coda per farci trattare male? E poi dare anche dei soldi a quelli che ci seviziano? Attendere! Non si fa che attendere un evento straordinario. E la vita ci passa davanti, non fa la fila. Penso a queste cose mentre fisso il tabellone. Le posizioni scalano lentamente. Qualche anziana signora, professionista della coda, ha in mano un mazzo di biglietti.

“A099” ci stiamo avvicinando. Tutti con lo sguardo fisso nella stessa direzione. Un gruppo di lobotomizzati. Incomincio a dimenticarmi cosa significa godere dei piccoli piaceri della vita. Ora sono solo preoccupato di questo stupido biglietto che inizia ad assorbire il sudore della mia mano. I bordi della carta mostrano segni di cedimento, piegoline. Il suo destino è finire accartocciato nel cestino al banco. La mia speranza è abbandonarlo prima possibile.

“A110” si! Manca poco! Questa tortura sta per finire. Il mio biglietto ha un fremito e vola lontano da me. Una folata di vento. La porta scorrevole dell’ufficio si è spalancata all’improvviso. Il foglietto, custode della mia tranquillità, plana a terra. Corro a raccoglierlo. Tra l’indice e il pollice tengo il mio lasciapassare. Sollevo lo sguardo e il mio respiro si ferma. Nei miei pensieri l’avevo già spogliata.
“A111” La vita si era fermata a fare la fila. Dovevo dire qualcosa. “Buongiorno! Viene spesso qui?” Ma che cazzo di domande faccio! Mica siamo in un bar. Però mi sorride. “Sa io sono qui da due ore per pagare un bollettino.” Sto pensando alla banalità delle mie parole, lei mi risponde “Le code in posta sono insopportabili. Non trova?”

“A112” ed ecco che quando ti serve che il mondo rallenti, accelera all’improvviso. Tutto ti scivola fra le dita e ti senti incapace di reagire. Provo a ingannare lo scorrere del tempo “La vede quella signora?” le faccio “ha già venduto un decina di biglietti a dei disperati che volevano passare avanti.” Mi guarda incuriosita. I suoi occhi sono scuri e luminosi. “Ma lei che numero ha?” Le rispondo”A121!” la mia voce è ferma. Le mostro quel pezzo di carta come se fosse il simbolo della mia mascolinità.
“A113” “Devo aspettare troppo tempo” mi dice. Non la sto ascoltando, guardo rapito le sue labbra che si muovono. Una sensazione di calore e morbidezza mi avvolge. “ Se vuole le cedo il mio posto.” Ho detto veramente questa stronzata? Sono due ore di merda che aspetto e cedo il mio posto così?

“A114” “A115” l’incantesimo ha di nuovo il sopravvento su di me. Intuisco la forma dei suoi seni sotto la camicetta. “Ma non si deve disturbare. Lei aspetta da così tanto.” Fa lei premurosa.

“A116” non capisco come, ma insito contro la mia volontà. Le porgo il biglietto appiccicaticcio. Mi guarda quasi con faccia disgustata. Sembra che stia per andare via. Si guarda intorno.

“A117” “A118” “A119” ho già percorso una ventina di volte il suo corpo con notevole sforzo per i miei bulbi oculari. Si gira di nuovo “Ma non vorrei approfittare, lei è troppo gentile.”

“A120” “Non si preoccupi, lo prenda.” Mi sfila l’ultima speranza di mano. Trattengo con le narici il suo profumo mentre si allontana.

Bip “A121”

Sono di nuovo in attesa.

giovedì 1 novembre 2012

Lena

Lena era uscita dalla porta della cucina. Aveva imparato da poco a camminare e stava già mettendo a dura prova la pazienza di sua madre. Fuggire dalla stretta vigilanza era un’avventura. Il primo assaggio di libertà! La sua pancia era in subbuglio, tremava per la paura e desiderava vedere come fosse là fuori.
Davanti a lei si stendeva l’acciottolato del cortile. I sassi arrotondati si stringevano in file ordinate gli uni agli altri, formando una superficie solida e regolare pronta a sorreggere il peso degli animali da tiro e del loro carico. Alla fine di ogni giornata di lavoro Vanni, il fattore, spazzava ogni anfratto del cortile. Non lasciava che nemmeno un filo d’erba potesse attecchire. Era un uomo grande e forte Vanni. Ogni volta le trasmetteva allegria e tranquillità. Aveva poi quell’odore buono di fieno, quelle mani spesse e la forza di chi è abituato a faticare senza sosta.
Lena Stava ammirando il labirinto che correva tra le pietre. Era stupita e meravigliata. Si chinò a toccare i ciottoli tondi, le piaceva quella superficie liscia e calda. Guardò avanti verso il portone e iniziò a muoversi sulle sue gambe tozze e corte. Sotto il sole di metà giornata nessuno poteva ammirare la sua impresa. Sola in quello spazio immenso, nelle sue scarpette e nel suo vestitino bianco della domenica. Era arrivata ad appoggiare la mano sul portone di legno, aperto per accogliere i braccianti di ritorno dai campi. La sera sarebbe stato chiuso per lasciare fuori l’universo e i suoi problemi.
Lena stava per fare il suo primo passo all’esterno. Udì tremare una voce : ”Lena, dove sei?” Non si lasciò fermare, avanzò. In lontananza si udivano dei rumori, qualcuno stava correndo sulla ghiaia. Un uomo in divisa con il volto trasfigurato dalla fatica, sporco di terra e sangue, uscì dalla curva. Altri due gli erano dietro minacciosi, imbracciavano dei fucili. iniziarono a sparare. Le pallottole schizzarono sulla ghiaia e alcune scintille si accesero a fianco a Lena. L’uomo, colpito, cadde davanti a lei. Si alzò la polvere intorno. Gli occhi vitrei, uno sguardo vuoto fisso su di lei. Dietro, le grida di sua madre. Davanti, due sconosciuti le correvano contro. Due facce piene di rabbia e odio. Chiuse gli occhi pregando che scomparissero. In quel momento cadde il silenzio.
Le sue palpebre si risollevarono. I suoi piedi erano più grandi e riempivano delle scarpe nere, proprio come quelle della mamma. Non capiva. Il suo corpo era mutato e sembrava che gli alberi e la casa avessero una dimensione diversa. Era ancora sotto l’arco del portone. Si accorse di avere sotto braccio una conca. Nel prato all’esterno c’erano i panni stesi. Rientrata all’improvviso nella realtà, lasciò il suo stupore e i suoi pensieri quasi non fossero mai esistiti. Si diresse verso il bucato. L’odore delle lenzuola annegate nella luce di quell’agosto la inebriavano. Rimase per qualche istante ferma a farsi accarezzare dai panni mossi dal vento, le sue narici si riempivano di quella fragranza. Si scosse di dosso quella sensazione di leggerezza e iniziò a tirar via dalla corda un lenzuolo.
Un sipario scoprì un viso. Un uomo dall’età non definibile con un sorriso dolce. Stava lì fermo a guardarla, come se la vista di Lena fosse l’unica cosa che gli potesse permettere di esistere. Lena non si era spaventata, anche lei guardava incuriosita. Fermi tra i panni e la brezza estiva, una manciata d’aria a separarli. Potevano sentire uno l’odore dell’altra. Lena entrava nelle narici dello straniero con la freschezza di chi ha ancora dei sogni. Lo straniero, nei suoi vestiti logori e nel suo cespuglio di barba, portava un odore pieno di esperienza. Lena si sentì accarezzare il volto, una mano ruvida piena di calore umano.
Un urlo la riportò di nuovo alla sua realtà:
”Lena!”
Irrigidita allontanò il proprio corpo dall’uomo. Senza guardarlo iniziò a raccogliere la biancheria ripiegandola con cura. Il tepore e la tranquillità erano scomparsi dal suo cuore. Quando ebbe finito il suo lavoro, l’uomo era scomparso e con lui quell’assaggio di felicità. La tristezza stava prendendo il sopravvento nel suo cuore. Si sentì sola. Le lacrime le annebbiarono la vista. Singhiozzava e tremava. In questo pianto ogni giorno abitava la sua carne, sembrava che il mondo scorresse veloce sotto i suoi piedi, sentiva che il tempo le fuggiva tra le dita.
Ecco che riusciva a fermare un fotogramma. Era un ricordo o il suo presente che prendeva corpo? La sua voce era quella di una donna adulta. Sentì le sue labbra dischiudersi:
“Tino dove sei?”
Il grido di chi cerca il proprio figlio. Un bambino correva sotto il sole, saltava spensierato felice di sentire il sapore delle gocce di sudore. Voleva raggiungere il portone. Si girò e salutò sua madre. Un sorriso sdentato raggiunse Lena che rispose abbandonando la sua ansia. Tino correva libero sulla strada.
Il caldo si fece infernale. “Non c’è più tempo” Pensava “bisogna andare, bisogna uscire.” L’erba cresceva in fretta e soffocava i ciottoli. Si era fatto tutto luce intorno. Ora Lena capiva, vedeva chiaramente. Ora poteva svegliarsi e iniziare la sua giornata. Solo che bisognava ricordare a che punto aveva lasciato la vita.
Non riusciva a respirare bene. Un dolore lancinante risaliva il suo petto, come una radice calda che cresceva per stritolare cuore e polmoni. L’aria entrava e usciva con un sibilo dalla sua bocca. Intorno a sé vedeva muri scrostati. Le lenzuola erano ingiallite. Erano anche appiccicose, come intrise di sudore. Una donna stava in piedi affianco al letto. Un uomo la teneva per mano in una stretta salda, per non lasciarla andare. Sembrava volesse darle un appiglio sicuro. Si, era Tino! Era lì! Le sembrava stanco, forse anche triste, ma almeno era vero.
Lena si ricordava.
Capì.
Oggi era lì per salutare e finire il suo sogno.

lunedì 22 ottobre 2012

Guardando

Un po' di traverso, un po' di nascosto.
Certo, penso, con la voce che ha dev'essere molto sicuro di sé. Dice anche tutte quelle parole che a me non riesce mai di trovare al volo. Mi domando se sia solo una fortuna, una casualità, una dote o semplicemente una scuola molto accurata, specifica.
A me le parole al volo non vengono mai.
Però so guardare e guardando vedo tutti i vostri volti, quelli che celate dietro gli occhiali, la sciarpa annodata in quel modo, il sorriso del mattino e quello del pomeriggio. Perchè non ve ne accorgete ma dietro ogni maschera c'è un mondo che non vi appartiene e di quel mondo siete delle marionette; saltate e ballate ogni volta che la musica parte e dovete ballare perchè diversamente non sapete fare.
Vi vedo che parlate delle anime che vorreste vi abitassero e ne parlate così tanto che l'anima se ne va e neppure ve ne accorgete.
Vedo e guardo e ascolto.
Ascolto solo l'eco di questa stanza vuota che mai riesco a varcare.

sabato 6 ottobre 2012

È la signora delle scatolette di tonno, che mi ha colpito.


Questa notte non ho dormito.
Non si è trattato del pensiero di te, né della sensazione costante che qualcosa possa abbattersi sul mio letto, di schianto, come per un colpo di vento. Questa notte non ho dormito perché ho girato tutta la città in bicicletta, con un filo di lenza legato al portapacchi, e dietro tre scatole di latta vuote.

Gran cubetti di giornata, dicono le scatole. Che razza di nome, dico io, ma intanto pedalo e il rumore che produco supera le aspettative: sull’asfalto strida di lamiere, come un incidente piccolo, di nessuna importanza; sul selciato delle vie del centro è rumore di grandine, a chicchi grossi come mele; sui lastroni di pietra della piazza sollevo rumori antichi, da carrettiere.
Quando sei andata via pioveva forte. È singolare la selezione che nostro malgrado operiamo sui ricordi, anche quelli più prossimi. Oscuro il motivo per cui scegliamo alcune immagini e ne tagliamo altre. Così so che pioveva, ma non so più se avevamo litigato quella sera, o la sera prima, o un’altra ancora.
Ero sdraiato, gli occhi aperti a fissare il soffitto al buio, con il peso della tua mano vicino al mio sesso. Dormi? ti ho chiesto. Non mi hai risposto. La pioggia sbatteva sulle persiane e sulla tettoia di plastica. Ancora un attimo e la pioggia entrerà dalla finestra, ho pensato, ancora un po’ e ci sveglieremo nell’acqua, il letto che galleggia, le lenzuola umide di pioggia.
Ho desiderato a un tratto che l’acqua spalancasse le finestre e lavasse via tutto.
La mia bici procede così veloce in discesa che non riesco a starle dietro con i pedali: smetto di pedalare e tolgo piano le mani dal manubrio, prima una e poi l’altra.
Le scatole di latta mi seguono facendo un rumore assordante mentre si aprono le prime finestre e facce attonite, poi incredule, poi furibonde si sporgono dai davanzali e urlano parole nella mia direzione. In un attimo la notte silenziosa si riempie di grida, il rumore chiama altro rumore finché è chiaro per tutti che così non è più possibile dormire. Tanto meglio, penso. Così non sono il solo.
Nella frazione di tempo in cui mi compiaccio, la voce di una donna accompagna una scarica di grossi proiettili tondeggianti, che quando toccano terra non esplodono, ma prendono a rotolare lungo la discesa, accompagnano il movimento delle mie ruote. Prenditi anche queste, e queste, e queste, ripete la donna. Guardo meglio: sono scatolette di tonno.
Ho desiderato, poi, che smettesse di piovere. Non sapevo decidermi.
Mi sono alzato dal letto spostando piano la tua mano dal mio corpo. Ecco, ho pensato, adesso sono libero. Libero di fare cosa, non so. Ho aperto piano la porta del bagno e ho alzato meccanicamente la tavoletta come un bravo animale ammaestrato. Mentre guardavo il mio corpo sotto il neon impietoso dello specchio mi è venuto in mente Furby, il cane dei vicoli, il barboncino color champagne che esegue i suoi numeri alla perfezione e aspetta la ricompensa. Furby sa saltare, sa camminare in cerchio sulle due zampe posteriori, sa fare una capriola canina che lo rende più simile ad un ratto. La sua ricompensa arriva puntuale, sotto forma di biscotto. Furby compie tutti i movimenti che gli sono stati insegnati con un sorriso da sincronette.
All’improvviso ho sentito il bisogno di fare una doccia.
All’improvviso sento un dolore forte che si irradia dalla scapola sinistra e raggiunge il braccio, fino alla punta delle dita. La signora delle scatolette di tonno mi ha colpito. Sento un gemito: sono io. Provo a muovere il braccio sinistro tenendo il manubrio con la mano destra, provo a frenare, a puntare un piede a terra, ma è già troppo tardi quando compare davanti a me la sagoma di un cassonetto. È giallo, penso, che fortuna. Perché faccio la differenziata e le mie scatole di latta devo gettarle proprio nel cassonetto giallo. Poi penso a un cane giallo, al tonno pinne gialle.
Poi perdo i sensi.
          Mentre l’acqua della doccia scivolava sul mio corpo, fuori la pioggia continuava a battere sulle tegole del tetto, sul ferro scuro dell’inferriata, sui tavolini del bar. Se dio esiste, dev’essere un musicista, ho pensato. Il mio corpo ha conosciuto stagioni migliori. Quella sera mi sono lavato con forza, sfregando con la spugna e con le mani ogni parte di me, a togliere la pelle, a cercarne altra sotto. Dio continuava a suonare il suo improbabile xilofono terrestre, frustava il suolo, percuoteva i muri tesi delle case e intanto io lavavo le mie braccia, le gambe, le dita delle mani una ad una come si trattasse di un’impresa di vitale importanza.
Sono uscito dalla doccia e tu non c’eri.
Non eri più nel letto. Non eri più sotto le lenzuola, sotto il letto, in cucina, sul balcone.
Mi hai lasciato di te l’impronta leggera del tuo corpo sul materasso e la forma della tua nuca sul cuscino.
Mi hai lasciato un braccialetto, che poi saresti venuta a riprendere.
Mi hai lasciato.
Sono sdraiato. Dall’odore del disinfettante e dall’abbigliamento di chi ho attorno capisco di essere in ospedale. Eppure chiedo: dove sono? Un uomo vestito di bianco dice prontosoccorso. La mia testa produce curiose rime in orso, contro la mia volontà: corso, morso, accorso, angelorso.
Mi chiedono come mi chiamo e io rispondo. Mi chiedono che cosa è successo, che cosa mi ha ridotto in quello stato. Rispondo tonno. Preciso scatoletta di tonno e questa enorme fatica verbale induce l’infermiere ad armeggiare con la flebo per aumentare il ritmo delle gocce di sedativo, o qualunque cosa sia. Le vedo scendere veloci nel tubo trasparente e penso alla pioggia.

Questa notte non ho dormito.
Non si è trattato del pensiero di te.
È la signora delle scatolette di tonno, che mi ha colpito.





venerdì 5 ottobre 2012

Agata

La luce fioca dell’ abat-jour e le mie paure tremolanti. Poi tu che entri nella stanza, bella come l'inizio della notte.

E tutto l’amore che mi investe, insieme al tuo profumo.
Quanto è intenso il tuo profumo, quanto è assurdo questo amore. Non capisco più niente.
Ti afferro e ti bacio, cercando di soffocarti. Ti accarezzo come se dovessi ucciderti.
Ti spoglio, ti mordo, non ti do tregua.
E tu ti ribelli, quasi mi strappi i vestiti, mi graffi, mi tiri i capelli.
È una lotta, un duello, e io voglio vincere.
E anche tu.
E invece non vince nessuno, in questa guerra che ci combattiamo da anni, tra tragiche tregue e furiose battaglie.
Ma se scopare ha un significato deve essere questo, bruciare, pulirsi l'anima, sciogliere lo sporco che il mondo ci lascia fin negli anfratti più fondi.
E allora ti prendo, su un letto che non profuma di niente, ti travolgo, ti colpisco con la mia vita, sempre più forte.
E tu chiudi gli occhi e stringi le lenzuola, ti inarchi. Resisti e ti trattieni e poi gridi.
E non lo dici mai "ti amo", anche se cerco continuamente di estorcetela, questa confessione, provo a strappartela in ogni modo, giocando col tuo piacere, crudelmente.
Sono un inquisitore, un torturatore. Sono un sadico Torquemada.
Tu però non cedi mai.
Mi sfidi, ti rivolti, afferri il mio cuore e mi trascini, sempre più in alto. Saliamo, ancora più su, verso il sole, saliamo finché non è troppo, finché le ali non ci prendono fuoco.
Allora precipitiamo, giù verso il mondo, schiantandoci al suolo.
Poi agonizziamo, tra le carezze più dolci.
Poi è finita. Poi ti rivesti e poi te ne vai. E tutto ciò che la mia vita ti lascia è il segno rosso d'un morso, che tra poco andrà via.
Un segno rosso e nient’altro.
Riprendo i vestiti, li controllo, li indosso e torno ad essere la persona che tutti conoscono.
Di nuovo nei miei pantaloni, fissando la luce rossa dell’insegna che filtra dalla finestra, cerco un’altra volta di cancellarti per sempre.
Chiamo Anna e le dico che sono ancora in ufficio, sto facendo gli straordinari. Le dico di non arrabbiarsi e che questi son tutti soldi che entrano e ci paghiamo una bella vacanza.
Andremo in Sardegna, ad agosto. Farò finta di amarla.
Mi concentro sul fatto che tra poco sarò da lei, mangerò quello che mi ha lasciato da parte, giocherò un po’ con Carlo prima di metterlo a letto.
Andrà tutto bene.
L’unico pensiero che mi provoca angoscia è la consapevolezza che, una volta varcata la porta di casa, dovrò affrontare gli occhi di Agata, pieni di disappunto e tristezza.
Perché Agata è l’unica che lo sa e me lo rinfaccia. Non so come, forse proprio dalle mie braghe, ma in qualche modo lei lo ha capito, lei sola. Lei che è un’esperta, è del ramo.
Lei che è un cane lo sa.
Non sono fedele.

mercoledì 3 ottobre 2012

I volti indossati

Vedi, fece lui, la faccia che hai di fronte non è quella che normalmente indosso. Sono un'altra persona, ho un'altra vita e mi mimetizzo di continuo tra ricordi di me che non mi appartengono più. Lasciami perdere, è meglio.
 
Non era il momento migliore per restare fermi, pioveva e non avevano neppure di che ripararsi. Non era il momento migliore neppure per rispondere, certe affermazioni tranciano la fantasia. Non era il momento migliore per nulla.
La sola cosa veramente interessante di quell'incontro erano state le suggestioni e la follia di una sessualità incredibilmente incontenibile.
Non erano incontri qualunque, non c'erano preamboli o giri di parole, c'era andare al sodo e andarci in fretta.
E la sostanza era pesante, senza compromessi, per certi versi, deviante e fuori dalla soglia della moralità comune.
Non era lasciarsi andare era molto di più, era rinchiudersi nei dieci metri quadri della stanza e scordare dove quella stanza fosse e perchè esistesse, ammesso potesse esistere.
I volti, i loro volti, non erano previsti. Il corpo cominciava da sotto il mento e terminava sopra le ginocchia, neppure l'aria era aria, i respiri, le mani, le luci accese o spente, le persiane abbassate o spalancate, tutto era oltre, secondario al terreno e al mistico. Oltre.
La pioggia cadeva e cadeva l'ultima parola detta, che lei non esitò a voltarsi e andare via.
In fondo nessuno aveva un volto reale, nessuno dei due indossava ciò che era: ciascuno indossava la maschera dell'altro.
Lui la guardò di schiena rasentare i cornicioni del palazzo e scomparire all'angolo.
Si voltò appena senza muovere un passo, giusto per capire se dietro di lui esistesse ancora la strada o fosse sul ciglio di un baratro.

lunedì 24 settembre 2012

Ellisse

Ellisse. Un ellisse perfetto, o qualcosa del genere. Comunque non un cerchio, e una ruota che non sia un cerchio ha difficoltà a girare, su questo persino io non ho dubbi.
Facendo perno con la mano sul sellino, mi giro a testa in giù a guardare meglio, che non sia uno scherzo, lo scherzo dell'ultimo bicchiere di vino, che non sia una strana illusione ottica dovuta alla luce gialla del lampione, al quale ho legato la bici. La mia cara, vecchia bici con le ruote tonde.
Niente da fare. Ellisse. Si chiamava così no? Il cerchio che non è un cerchio? L'orbita della terra intorno al sole?
Armeggio agitata con la chiave della catena per slegare il telaio e controllare ancora.
La luce gialla del lampione scivola sul manubrio, sulle leve del freno, sulle mie mani tremanti: al posto del campanello trovo un mulinello da canna da pesca.
C'è una lenza tesa che collega il manubrio della mia bici all'angolo della strada, ma è chiaro che prosegue oltre lo spigolo del palazzo. C'è qualcosa là dietro, collegato a me da questo filo di ragnatela teso come un mi cantino. Lo pizzico: l'aria vibra, MI.
Non so se riavvolgere la lenza o girare l'angolo.
La luce gialla del lampione incomincia a tremare e la lenza a dare strappi, come avesse abboccato un pesce gigantesco.
Ci siamo, penso, aiuto, penso. Aiuto, sussurro, dico ad alta voce.
Poi la lenza si allenta e scivola da dietro l'angolo un tonno. Un tonno in scatola.
Un altro tonno. In scatola. Quattro scatolette da 125 g, una da 300g. Pinne gialle, dice la scatola.
Sono vuote e legate tra loro da un filo di lenza.
Cerco e trovo con sollievo il cappio che mi permette di legarle alla sella come un sonaglio, un sonaglio da sposa, penso.
Salgo sulla mia bici, che procede a balzi su queste ruote nuove e fa un gran casino di latta che sbatte.
L'incubo è finito.



Polinomio ecclesiastico

- Suor Lara? -
- Sì? -
- Dove ha messo il coccio? -
- L'ho fasciato nel tovagliolo, ma... è solo una scheggia -
- Basterà, Sorella -
L'ebbrezza dell'omicidio stava dilagando senza spiegazioni, come una febbre che non si conosce e così si propaga più velocemente.
Era estate.
L'estate della Clarisse, l'avrebbero chiamata poi.

venerdì 21 settembre 2012

Ti Amo



Mi fece mettere una maglietta bianca, di cotone, anonima. Lo feci senza discutere, mi fidavo di lei e mi piaceva partecipare ai suoi processi creativi, essere in qualche modo compreso nella sua arte.
Quando l’ebbi indossata si allontanò, lasciandomi solo al centro dello studio. Attraversò il raggio di sole che entrava di sbieco dalla vetrata alla nostra sinistra e cominciò a frugare tra la confusione del grande tavolo di legno, tra pennelli, cornici e calchi di gesso. Trovò quello che stava cercando, un barattolo di vernice rossa e lo aprì. Ci infilò tutta la mano dentro, la destra, e poi la estrasse. Tornò verso di me tenendo il braccio lungo il fianco, le dita lasciavano cadere piccole gocce rosse dietro di lei, come una scia di sangue. Infilò i suoi occhi neri ben dentro i miei, in profondità. Aveva un’espressione triste e fatale, come una condanna. Mi chiese qualcosa che non mi aveva mai chiesto.
Dimmi che mi ami.
Non glielo avevo mai detto, sebbene ci frequentassimo ormai da qualche mese e sapessi in cuor mio di amarla e mi fossi anche deciso a pronunciarle, quelle due parole, di lì a poco. Forse l’avrei fatto proprio quella sera, eppure quella richiesta mi paralizzò.
Non credo potesse essere certa che lo avrei fatto, non era un ordine il suo, non aveva nulla di perentorio. La voce le tremava, mentre lo disse, e gli occhi sembravano sul punto di tracimare lacrime.
Nel silenzio polveroso dello studio l’unico rumore, regolare ed insistente, era quello delle gocce di vernice che le colavano dalle dita, schiantandosi sui teloni di nylon stesi sul pavimento.
Avevo paura, percepivo qualcosa di assoluto, come se tutto l’universo stesse convergendo in quel punto, su di noi. Non mi aveva semplicemente chiesto di esplicitare i miei sentimenti per lei, in qualche modo mi stava implorando di salvarla, da qualcosa da cui non poteva fuggire da sola, di prendermi cura di lei, della sua vita.
Mi domandai se ne sarei stato capace, se con quelle cinque lettere avrei potuto assumermi un impegno del genere, diventare il centro del nostro universo, sostenerlo.
Respirai profondamente, il cuore mi rimbombava nel petto, forte, insistente.
Le dissi ti amo.
Lei alzò la mano destra e ne appoggiò il palmo sopra il mio cuore, chiuse gli occhi e abbassò la testa. Mormorò anch’io, poi tolse la mano che lasciò un’impronta rossa sulla maglietta bianca.
Mise le sue mani sui miei fianchi e me la sfilò. La appoggiò ad asciugare su una sedia vicina, poi si tolse la sua e la gettò per terra, si sfilò i pantaloni della tuta e gli slip.
Mi accarezzò, con la mano rossa e anche con l’altra, mi sbottonò i jeans e facemmo l’amore, in una maniera che fu diversa da tutte le altre, da quelle che erano venute prima e da quelle che vennero dopo.
Ce l’ho ancora quella maglietta. Lei la firmò, quella sera. Volle che la tenessi io.
È qui, nelle mie mani, saltata fuori dall’ennesimo trasloco della mia vita. Probabilmente oggi varrebbe bei soldi, a volerla vendere; lei ha fatto parecchio successo, da allora.
Solo non è più molto bianca, la maglietta dico, tende un po’ al giallo e il segno rosso della sua mano è secco e leggermente scrostato.
Forse per il tempo passato. O forse perché il mio cuore quella sera, mentre le dicevo ti amo, batteva così forte che il colore non si stese uniformemente.
Non lo so, mi piacerebbe pensare che sia la seconda, ma sarebbe una scelta completamente arbitraria, che non ho diritto di fare.
Posso solo contemplare quest’opera d’arte e ricordare quel momento, unico nella mia vita, e quel ti amo pronunciato in una maniera diversa da ogni altro.
A pensarci bene, guardando gli scatoloni qui intorno e questa casa che lascio, forse l’unico autentico della mia vita.

lunedì 17 settembre 2012

Io, botte

Quando ero piccolo mi chiamavano La Botte. I miei compagni di classe - tutti maschi, come imponevano le regole di quei tempi - amavano esercitarsi in brevi e rapidi componimenti durante la ricreazione, che avevano puntualmente me come soggetto.

Prediligevano giochi di parole, come Diamo botte alla Botte e La Botte dorme su una botte.

Io incassavo sia le botte sia le prese in giro, sperando che il grasso sapesse proteggermi abbastanza da non lasciare segni visibili sulla pelle. In questa partita, non giocavano a mio favore né la mole né la professione di mio padre.

Lui è un famoso enologo. O meglio, lo è stato, prima che il bisogno di controllarmi si facesse così pressante da spingerlo a non uscire più di casa. I dottori erano stati chiari: per quanto potessi supplicare, contorcermi, lanciare oggetti contro il muro o minacciare svenimenti improvvisi, non doveva farmi mangiare fuori pasto. Mai.

Legarmi i polsi dietro la schiena, chiudermi a chiave nella mia stanza, farmi sorvegliare a vista ovunque andassi... non importava come: si doveva tenere a freno il mio bisogno di mangiare in continuazione.

A quei tempi il mio bisogno non aveva un nome. Ero solo una Botte molto golosa e in cerca di attenzioni. Nessun dottore poteva sapere che ero una Botte ipoglicemica.

Ora papà il vino lo fa e basta. Dormo ancora su una botte, tagliata a metà e lavorata fino a farla diventare un letto.

Dormire sul legno mi piace. A volte chiudo gli occhi e mi sembra ancora di sentire l'odore del mosto, vecchio di anni, che scende giù fra le travi del pavimento e arriva fino alla cantina.

L'odore di mio padre.

Che è anche mio.

domenica 16 settembre 2012

All'improvviso quel marciapiedi!

Uscii  di casa di corsa, ultimamente succedeva spesso. Sarà perché amavo trascorrere le serate in compagnia, sarà che la lettura del libro di fantascienza mi teneva sveglia tutta la notte, sarà perché mi sembrava di perdere tempo lasciandomi rapire dal sonno. Spesso le ragioni della sera che si ripercuotevano sulle mattinate assonnate che mi vedevano uscire di casa con la mente che rincorreva ancora la scia dei sogni. Quella mattina scelsi le scarpe meno comode, nascoste in fondo al portascarpe. Avevo sentito il bisogno di un abito importante e le scarpe rosse non potevano mancare. Incontrai nel percorso i miei vicini da mesi attenti alle mie uscite, chissà per quale motivo poi, chiudevo sempre il portone, non ero come quelli del terzo piano che lo appoggiavano solo e lasciavano che tutti i volantinanti riempissero le cassette di posta di pubblicità ingannevole. Mi guardarono però le scarpe e non seppi decifrare il loro messaggio.  Nel percorso accelerato per raggiungere la meta lavoro, dimenticai che il lungo marciapiede era da giorni occupato da ingombranti lavori. Il passo deciso incontrò la resistenza della cavità nascosta nella polvere dei lavori. La mia scarpa di vernice rossa dal tacco prorompente era bloccata, non c’era modo di recuperarla. La disperazione invase il mio affanno, mi svegliai all’improvviso dal sonno ancora latente. Mi ritrovai con un piede nudo sulla strada e lo sguardo perso che coglieva l’altra scarpa di colore verde. Come era possibile? Avevo indossato due scarpe di colore diverse e l’incidente col marciapiede mi restituiva la realtà delle mie scelte mattutine e per di più con una sola scarpa del colore sbagliato. Passanti mi scorgevano sorridendo, donne preoccupate guardavano i loro piedi, io assaporavo il piacere di un piede nudo sull’asfalto.. Maledii il mio sonno tardivo nella notte e pensai a una soluzione immediata. Eppure riscoprivo un piacere di libertà dal sapore lontano, autentico, pieno di spontaneità. Avrei proseguito il percorso a piedi, sarei entrata a lavoro così scalza, in attesa degli sguardi sorpresi, delle risatine cattive, dei commenti appassionati. Cosa c’era di meglio di una donna ben abbigliata e scalza? Avrei atteso poi il tempo necessario per divertirmi e poi  correre al mio negozio preferito per acquistare un nuovo paio di scarpe, perché no anche esse di colori diversi. Le avrei sfoggiate allora consapevole, con orgoglio, come solo noi donne piene di vanità sappiamo fare.


mercoledì 12 settembre 2012

Màrica

Poter scendere a patti non sempre si rivela un buon affare.
La questione era molto semplice: uscirne o restare.
La prima emozione è quella che conta, pensò intanto che scendeva le scale di casa sua. Da fuori tutti possiamo sembrare persone inecceppibili e differenti, basta mantenere a lungo quello sguardo curioso che contraddistingue le persone senza malizia; quelle che prima di ogni cosa è la propria morale, l'eccezionalità delle proprie azioni, il riverente saluto sul sagrato dopo la messa.
La malizia è lì che ci segue dappertutto, s'insinua nei nostri pensieri alla fermata dell'autobus indugiando lo sguardo sul gruppo di studenti in attesa scanzonata; la malizia é credersi capaci ancora di incuriosire. Sessualmente, chiunque.
Non bastava la scusa delle lezioni, le ripetizioni. Non bastava il potere naturale di una posizione dominante. No. Serviva oltre, serviva sapersi differenti e al limite di se stessi.
Màrica lo aveva capito eccome, nonostante i suoi diccianove anni. Aveva perfettamente capito che la malizia non è un abito di una sera ma una pelle che si rinnova a ogni età. Amava vederlo così, indebolito dai suoi stessi piaceri mai troppo controllati e controllabili. Non era lei la vittima, era la carnefice in un gioco dove si massacravano le certezze e sapienze di una vita, la vita di un lui ancora troppo impegnato a perdersi in quei sensi riaffiorati alla mente da non comprenderne l'aspetto letale.
Il patto erano i silenzi che avrebbe dovuto gestire per conservare immacolata la figura e la sostanza. Il patto era fingere che Màrica non avesse due anni in meno di sua figlia. Il patto era credere ancora di essere vivo in cambio di una morte entusiastica.
Uscirne o restare. Uscirne o restare.
Come chiedere al vento di essere nuvola e soffiarsi via da solo.

martedì 11 settembre 2012

Maiale

Solo buio intorno. La corda che sega i polsi. Le dita delle mani che formicolano. Dove cacchio sono? Ecco che riaffiora alla mia mente, come un eco, la parola maiale. Si, maiale! Mi aveva chiesto se volevo fare il maiale con lei e io le sono corso dietro senza fare domande. Saturo delle sue curve, del suo profumo, il mio corpo aveva risposto al richiamo. Ora eccomi qui appeso a un trave, braccia e gambe legate.

Il gioco era intrigante. Mi stavo gustando il più bel pompino della mia vita. Ero immobilizzato e non potevo fare nient’altro che godere. Per un attimo ho pensato che fosse una pazza quando l’ho vista raccogliere il mio sperma in una provetta. Ma chi sono io per giudicare le perversioni della gente?

Si è alzata in piedi, ha camminato verso un mobile. Il mio sguardo era fisso sui suoi glutei, esplodevo dentro dal desiderio di sculacciarla. Ha aperto un cassetto ed ha tirato fuori un rasoio. Stavo per mandarla a fanculo, ma appena ho aperto la bocca mi sono ritrovato uno straccio tra i denti. Il gusto del sangue mi ha colpito come uno schiaffo. Ha ispezionato ogni parte del mio corpo con la lama, eliminando ogni singolo pelo. Mi sentivo nudo, stavo tremando scosso dai brividi. Ha raccolto tutto in una busta sigillata. In assoluto silenzio, è uscita, ha spento la luce e ha chiuso la porta.

Non so da quanto tempo sono qui. Mi sono pisciato sulle gambe e fa un caldo infernale in questa stanza. Sento le gocce di sudore che mi scendono lungo la schiena. L’odore d’urina inizia a nausearmi. È uno scherzo del cazzo! Appena mi slega la riempio di botte sta’ stronza.

Vedo un filo di luce che passa sotto alla porta. Sento il rumore dei tacchi a spillo. Non capisco se ho più paura o se sono più eccitato. La porta si apre, la luce da fuori illumina la lama di un coltello. Si avvicina e mi sussurra all’orecchio: “Del maiale non si butta via niente.”

Non so perché, ma il mio primo pensiero è che da oggi diventerò vegetariano.

Polinomio fantastico

L’ebbrezza dell’estate giunse da lontano al convento delle clarisse segnalato sul percorso di montagna. Nell’atrio adibito a ristorante gli ospiti si divertivano rispettando un contenuto riserbo. All’improvviso come una scheggia impazzita si diffuse  una fervente eccitazione. Qualcuno aveva rovesciato una bottiglia, il nettare d’uva, fresco e rubino aveva macchiato, quasi fosse goccia di sangue, il tovagliolo immacolato poggiato sulla tavola regale.  Un coccio partì lontano.  Si sentì nell’aria un leggero movimento, nessuno immaginava che  avrebbe avuto inizio l’inferno.

Lo Specchio



In piedi accanto al letto, mi guardo riflesso nella parete a specchio. Tendo i muscoli addominali, verifico la sporgenza dei pettorali. Poi ruoto facendo perno sulla punta dei piedi e mi osservo di profilo, valutando l’assenza di rotondità della pancia. Fletto le gambe e mi piego leggermente in avanti, lasciando emergere il disegno dei dorsali, gonfiando la massa dei quadricipiti femorali. Poi mi rimetto dritto, nella posizione di partenza, mi sfilo i boxer e li lascio scivolare fino a terra, allontanandoli con un rapido movimento del piede. Completamente nudo mi passo le dita sulla testa calva e le incrocio dietro la nuca. I miei tatuaggi risplendono, il mio corpo è liscio, perfetto. Sono indubitabilmente bello.
Mi fletto in avanti afferrando saldamente le caviglie, le mie gambe sono tese, la colonna vertebrale perfettamente arcuata.
Non posso vedere l’immagine riflessa, ma so con certezza che richiama un’idea di impeccabile perfezione fisica, l’estasi della proporzione, un ideale greco. Trattengo il respiro, chiudo gli occhi e mi immergo profondamente nel tepore mia autostima.
Suona il telefono e mi rialzo, uscendo dal bozzolo di compiacimento che mi proteggeva. Immagino chi possa esserci dall’altra parte dell’apparecchio e lo lascio squillare una, due, tre, quattro, cinque volte. Squilli lunghi nel silenzio della stanza. Poi scatta la segreteria.
-Lothar!
Il mio nome, pronunciato dalla sua voce infuocata, risplende di precisione come la lama di un bisturi. Allargo le gambe e contraggo i muscoli.
-Lo so che ci sei, brutta testa di cazzo!
Con una mano mi accarezzo l’addome, ammirando lo spettacolo meraviglioso di un erezione che si schiude. Posso percepire distintamente lo scorrere del sangue richiamato a gran voce là dove si concentra la mia vita.
-Ho qui davanti la relazione che mi hai consegnato. Che cazzo significa? Sei rincoglionito?
Quando si arrabbia così le si gonfiano le vene del collo. È la rabbia disperata di chi ha avuto la bellezza e l’ha persa. Vorrebbe che la scopassi ancora, ne ha bisogno per sentirsi viva.
-Merda, sono le dieci pagine più inutili che mente umana abbia mai partorito. Ti direi di aggiustarla ma è impossibile, ho affidato a Stein l’incarico di prepararne una decente.
Sfiorandomi ripenso alla morbidezza setosa dell’interno delle sue cosce, al gusto vellutato della sua pelle.
-Abbiamo dovuto rimandare la presentazione, per colpa tua, ignobile mentecatto.
Ripenso agli scatti della sua schiena, al grido delle sue viscere, al suo sudore caldo.
-Questa volta è troppo, Lothar, lo capisci?
C’è solo un potere al mondo, e non è quello gerarchico che crede di avere lei.
-Senti, se un cervello da qualche parte ce l’hai, sbrigati a venire in ufficio.
Ripenso alla forza meccanica delle mie mani strette intorno al suo bacino.
-Ti do la possibilità, l’ultima, di convincermi a non licenziarti.
C’è solo il potere d’acciaio della bellezza, tutto il resto è futile.
-TI dico già che non sarà facile.
Ci sono solo io, riflesso in uno specchio, fiero, perfetto.
La comunicazione si interrompe. Continuando a guardarmi negli occhi abbandono il mio sesso e trattengo la voglia che avrei di baciare la mia immagine.
Non ho fretta, sorrido, mi dico “ti amo” e vado in bagno a lavarmi.